Elogio della vecchiaia

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Elogio della vecchiaia
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Elogio della vecchiaia
AUTORE: Mantegazza, Paolo
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Un saggio scritto alla fine dell'800 da un
medico positivista con l'intento di rivalutare
l'età avanzata, condizione considerata una
sciagura nel senso comune del tempo.
In appendice la traduzione ottocentesca, ad
opera di Michele Battaglia, del "De Senectute"
di Marco Tullio Cicerone.
Il testo elettronico riproduce fedelmente
l'opera di Paolo Mantegazza "Elogio della Vecchiaia"
secondo l'edizione di Franco Muzzio Editore,
Padova, 1993, tranne le seguenti varianti:
1) Capitolo Terzo:
"La donna, sopo aver perduto i diritti del
sesso" sostituito con "La donna, dopo aver
perduto i diritti del sesso".
2) Capitolo Terzo:
"per potersi sentire amici, e null'altro che
amici, un uomo e una sonna devono" sostituito
con "per potersi sentire amici, e null'altro
che amici, un uomo e una donna devono".
3) Capitolo Terzo:
"una parentela comune con le cose, con la
natura, con gli umini." sostituito con "una
parentela comune con le cose, con la natura,
con gli uomini."
4) Capitolo Quarto:
"una pleiade gloriosa di vechi" sostituito con
"una pleiade gloriosa di vecchi".
5) Capitolo Ottavo:
"lo strepiatre dei molti" sostituito con "lo
strepitare dei molti".
6) Capitolo Undicesimo
"E i bambini di San Terenzo conosono il loro
vecchio " sostituito con "E i bambini di San
Terenzo conoscono il loro vecchio"

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: "Elogio della vecchiaia"
di Paolo Mantegazza,
collezione Muzzio biblioteca;
Franco Muzzio Editore;
Padova, 1993

CODICE ISBN: 88-7021-653-5

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 19 aprile 2005

INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Ferdinando Chiodo, f.chiodo@tiscalinet.it

REVISIONE:
Patricia Masini, patty2768@yahoo.com.ar

PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
Alberto Barberi, collaborare@liberliber.it

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Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/

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Elogio della Vecchiaia

di Paolo Mantegazza
Indice
Indice 2
Due parole al lettore 3
Capitolo Primo: La vecchiaia nel cuore e nel pensiero dell’uomo 5
Capitolo Secondo: L’amore nella vecchiaia 10
Capitolo Terzo: L’amicizia nel vecchio 15
Capitolo Quarto: Il pensiero nella vecchiaia 21
Capitolo Quinto: I due pèchés mignons della vecchiaia 27
La gola 28
Capitolo Sesto: L’avarizia nel vecchio 34
La patologica e la fisiologica 35
Capitolo Settimo: Le grandi virtù e le grandi gioie della vecchiaia 40
La pazienza 41
L'indulgenza 43
Le opinioni 45
La rispettabilità 46
Capitolo Ottavo: Le piccole gioie della vecchiezza 47
La pipa 48
Abitudine e simmetria 49
La poltrona 49
Libro vivo e parlante 50
Capitolo Nono: Le memorie nel vecchio 52
Capitolo Decimo: La paura della morte 58
Capitolo Undicesimo: Storia di due vecchi felici 65
Ipsilonne 66
B. de B. 68
Capitolo Dodicesimo: Il codice della vecchiaia / Igiene fisica — Igiene morale 71
Aforismi e pensieri. 72
Capitolo Tredicesimo: Il gerocomio 78
Appendice 82
Bibliografia 104


Due parole al lettore
che possono anche servire di prefazione
Oh che vita gloriosa sarà questa mia,
essendo piena di tutte le felicità
che si possono godere in terra.
Luigi Cornaro
a 95 anni
Gli amici più cari, quei pochi ai quali confido tutti i miei pensieri, quando ebbero udito da me, che volevo scrivere l'Elogio della vecchiaia si misero a ridere; facendomi intendere molto chiaramente, che io parlavo per celia.
Io però insistevo, atteggiando la faccia alla più grave serietà, e allora mi davano del matto; e un coro di obiezioni, di sarcasmi, di invettive mi si rovesciava addosso, come valanga di pietre in un'antica lapidazione.
Sì, sì: sta bene, il tuo elogio sarà come quello di Erasmo sulla pazzia. Lodare la vecchiaia, per farne la satira.
Ma che si fa celia? Lodare la vecchiaia, la parte più miserabile della vita, che presa anche nell'assieme, è pure una povera cosa? Lodare l'età del catarro, della sordità, della debolezza; l'età in cui ogni giorno strappa un fiore o una foglia dall'albero della nostra vita; lodare l'agonia dell'esistenza?
Non riuscii a persuadere uno solo dei miei amici, che il mio libro sarebbe stato serio e che senz'ironia avrei lodato la vecchiaia.
Chissà che dopo averlo letto non abbiano a cambiar d'opinione, chissà che non si ricredano del loro errore!
Io ho scritto questo libro per me e per tutti coloro, che avendo più di sessant'anni, più di cinquemila lire di rendita, e una buona salute, non sono felici, e non lo sono per la sola ragione di esser vecchi.
Nella mia giovinezza, nell'età adulta ho sempre fatto le più grandi meraviglie, vedendo che gli uomini si auguravano a vicenda come sommo bene una lunga vita, e avutala, la maledivano. In questo paradosso doveva trovarsi nascosto, come bruco in un frutto, un grosso errore, che si doveva scoprire e distruggere.
Che tu possa campar cent'anni, che tu possa vedere la quarta generazione! E poi si dice che la vecchiaia è la miseria delle miserie, e i vecchi brontolano in coro: felici coloro, che son morti giovani!
Quanto è diverso l'augurio dalla cosa augurata!
Dov'è il bruco nel frutto? Dov'è l'errore? Chi ha ragione dei due? Chi augura a sé e agli altri la vecchiaia o il vecchio, che, avutala, la maledice?
La vecchiaia non è che una fase della vita; e in una vita normale, fisiologica, perfetta, è necessaria come tutte le altre età. Non v'è giornata senza il crepuscolo della sera, e non v'è vita perfetta senza la vecchiaia. Ora, essendo la vita una cosa bella e buona, e che ogni organismo sano difende con tutte le forze del corpo e dell'anima dai nemici che la insidiano, anche la vecchiaia può e deve essere una cosa buona e bella, che abbiamo mille ragioni d'augurare a noi e agli altri.
Se i vecchi per la più parte non sono felici, non è colpa della vecchiezza, ma di loro stessi; così come abbiamo tanti infelici nelle altre età, che pur giudichiamo le migliori.
Nella vecchiaia si sommano tutti gli errori fatti da noi nell'infanzia, nell'adolescenza, nella giovinezza, nell'età adulta — e ad essi poi i più ne aggiungono altri speciali nell'ultima età — per cui è certamente più difficile essere felici da vecchi. Ma anche qui convien ricordare due dogmi fondamentali dell'arte di vivere: che cioè la felicità è sempre una cosa difficile e rara, come difficili e rare sono tutte le cose migliori di questo mondo; come rara è la bellezza e raro è il genio. E poi l'altro dogma è questo: che le cose sono tanto più desiderabili, quanto più sono difficili ad aversi, e che tutti quanti hanno un po' di sangue nelle vene e un po' di nerbo nei polsi devono mirare alle cose difficili e alle difficilissime.
Per conto mio, il primo giorno in cui il lunario mi ebbe dichiarato vecchio, non stracciai il lunario, né tentai coi sofismi e gli artifizi di falsificare le date ma mi affacciai coraggioso alla vecchiezza, che mi guardava con ironia crudele:
Ma tu mi vorresti fare infelice, tu vorresti vedermi piangere e brontolare?
No e poi no! — Le cose difficili mi son sempre piaciute sopra ogni cosa e anche le impossibili mi hanno sempre affascinato. Tu non mi avrai fra le tue vittime. Io sarò felice malgrado le tue insidie e le tue percosse. Io voglio benedire la vita fino all'ultimo respiro, non voglio essere molesto né a me né agli altri. Accetto la canizie come una corona d'argento, non come un obbrobrio; accetto il riposo, non come una maledizione, ma come il premio di una lunga vita di lavoro e di lotta. Voglio essere felice, benché vecchio. La felicità può e deve mutar forma nelle diverse età della vita ma non deve mai abbandonarci. In questa lotta con la vecchiaia fino ad ora son rimasto vincitore: non so se e fino a quando mi sorriderà la vittoria. La desidero a me e a voi tutti, che da tanti anni leggete i miei libri, nei quali, pur variando stile e materia, ho avuto sempre dinanzi al mio pensiero l'idea fissa di fare un po' di bene a chi mi legge, di accrescergli il patrimonio della gioia, di alleggerirgli o di togliergli il peso del dolore.
Quando libro, fosse pur l'ultimo fra gli ultimi, raggiunge questo fine, non fu scritto invano, e l'autore, per quanto modesto, può esserne contento.
Capitolo Primo: La vecchiaia nel cuore e nel pensiero dell’uomo


D'ailleurs, il faut vieillir sous
peine de la vie, c'est un arrêt du
ciel, et le moindre des maux c'est
la vieillesse, pour qui sait la porter
avec courage et avec dignité.

Chev. De boufflers


Veux-tu savoir vieillir?
Compte dans ta vieillesse,
Non ce qu'elle te prend,
Mais ce qu'elle te laisse.

Legouvé


Vetustas quidem nobis,
si semper sapimus, adoranda est.

Macrobio


L'uomo vecchio per il selvaggio è un delinquente, che deve esser punito, o una creatura schifosa, che fa ribrezzo. Egli deve esser punito con lo sprezzo, con l'odio; se occorre anche con la morte, perché ha voluto arrogarsi il sacrilego privilegio di campar molti anni.
Nella famiglia è un peso seccante, un parassita. Non può più seguire i compagni alla caccia, alla pesca, alla guerra. È un inciampo nei viaggi e nella fuga. Convien nutrirlo, sorreggerlo, difenderlo.
Se poi il vecchio è una donna, oh allora lo schifo che ispira è ancora maggiore. Il selvaggio dimentica che quella donna lo ha partorito, lo ha allattato, lo ha amato più di se stessa. È una creatura immonda, ributtante, che nessun maschio desidera: è assai meno del cane che lo aiuta nella caccia. Tutt'al più si può farla cuocere, si può mangiarla; ma la sua carne è dura e amara.
Dovrei intinger la mia penna nel sangue per descrivervi tutti i trattamenti crudeli inflitti dall'uomo fuegino, dall'australiano all'uomo che ha il torto di aver troppo vissuto; ed io non voglio funestare il lettore (ch'io vorrei mi accompagnasse in un viaggio giocondo), rattristandolo e facendolo rabbrividire fin dalla prima pagina del mio libro. Se è un pessimista arrabbiato che si compiace nella lettura di Lourdes o della Terre, prenda un trattato di etnologia e vedrà in quali e quanti modo si insulti, si maltratti, si seppellisca vivo o si mangi morto, colui che fu padre amoroso, fors'anche guerriero intrepido o cacciatore fortunato.
Il mio libro è scritto con la penna di un ottimista, che cerca il meglio della natura umana, e ne studia il male soltanto per guarirlo o per migliorarlo. In questo elogio della vecchiaia io non sono un giudice, ma un avvocato.
Le razze inferiori devono scomparire affatto dalla faccia della terra e non v'ha pietà di filantropo o scuola di missionario, che possa salvarli da questa distruzione.
Vorrei piuttosto parlarvi del posto che occupa il vecchio nella società civile, in quella in cui siam nati e viviamo; in quella società che cammina ben lavata e ben pettinata, che porta guanti e istituisce ospedali pei malati, ospizi pei vecchi; ma che fa ancora la guerra e nella fine d'un secolo così ricco di gloria e di scienza si ammala di anarchia.
In questa società civile si celano ancora i semi dell'antica e animalesca ferocia, e sbocciano qua e là, come il loglio fra le spighe del grano, appena l'egoismo li inaffi e la passione li riscaldi.
Noi non uccidiamo più e molto meno mangiamo i nostri vecchi, ma li disprezziamo spesso e spesso gettiamo loro in faccia come una colpa la loro debolezza e i loro acciacchi. Tutt'al più verso di essi si sente la compassione, quasi mai le simpatia o l'amore; si giunge fino alla pietà, quasi mai fino alla stima.
Eppure la posizione del vecchio si è andata sempre migliorando col progredire della civiltà, come è accaduto per la donna, che con lui divide la colpa della debolezza. Il Vangelo di Cristo e quello più universale dell'umanità pietosa ha parlato anche per il vecchio, dandogli un posto al sole. Quando il nerbo dei muscoli non fu più l'unica o la prima delle umane virtù, si trovò che anche nelle teste canute il pensiero è desto e operoso; si trovò che il vecchio non è un parassita della società, ma un membro utile e necessario del grande organismo sociale.
Nel mondo cattolico, il vecchio diventò papa, il rappresentante di Dio in terra.
Nel mondo politico, il Senato ebbe il posto d'onore fra il Re e la Camera dei deputati.
E al letto del malato e nei consigli della famiglia il vecchio fu l'uomo preferito.
Tutta una redenzione fatta in nome della giustizia, della pietà e soprattutto in nome di una più profonda conoscenza della natura umana.
Di qui una lotta fra i crudeli atavismi ereditati dai nostri lontani padri e la pietà tutta moderna per gli infelici; di qui i molteplici e svariati sentimenti che la vecchiaia risveglia nell'uomo che pensa, nell'uomo che sente.
Di questa lotta, troviamo le tracce in tutti gli scrittori che rivolsero il loro sguardo alle teste canute; e se raccogliessimo tutti i giudizii dati da essi sulla vecchiaia, faremmo senza volerlo tutta quanta la fisiologia, la psicologia e la legislazione di quest'ultima età della vita.
I pessimisti ci dipingono la vecchiaia come una grande sventura. L'antichità classica scrive sulla tomba: felice colui che è morto giovane.
Menandro proclama che la vecchiaia è un peso molesto: Difficile senectus est hominibus onus.
E Terenzio, ancor più crudele di Menandro, dice francamente che la vecchiaia è una vera malattia. Senectus ipsa est morbus; sentenza che giunge fino a noi sotto forma diversa e ispira al Dr. Turck tutto un libro: La vieillesse considereé comme maladie; paradosso che l'autore può difendere con le stesse parole del più grande fra gli avvocati della vecchiaia, Cicerone, che nel suo libro immortale De senectute, scriveva: Pugnandum tamquam contra mortem, sic contra senectutem.
E il Dr. Turck avrebbe potuto invocare a difesa della sua tesi anche i Santi Padri, dacché anche nei loro libri si legge:
“Quando gli uomini augurano a se stessi la vecchiaia, qual altra cosa non desiderano, che una lunga infermità?”
Alcuni scrittori si accontentano di scherzare, dicendo come Theodectes, che vecchiaia e matrimonio devono essere due cose molto simili; perché desideriamo di averle, ma avutele, ci rattristiamo.
Altri studiano un lato solo dell'ultima età della vita, o ci danno consigli etici e filosofici sul modo migliore di sopportarla. E Aristotele, che ci insegna che i vecchi sono increduli, perche vissero molti anni e in molte cose furono ingannati o peccarono.
Ed e lo stesso grande enciclopedista dell'antichità, che da ai vecchi una lezione di igiene genitale.
Et propter hoc mulus est longioris vitae quam asinus et equus, ex quibus fit, quia ipse non generat.
Seneca detesta i vecchi che fanno lo zerbinotto.
Nihil turpius quam senex vivere incipiens.
Turpis et ridiculosa res est elementarius senex.
E quando Chilone umoristicamente scrive: optabilem esse senectutem juvenilem, molestam vero iuventutem senilem, va poco lontano dallo stesso Seneca, che aveva detto:
Iucundissima est aetas devexa, iam non tamen praeceps.
Aprite la Bibbia e vi troverete in più luoghi la glorificazione della vecchiaia.
L'Ecclesiaste ne parla con entusiasmo sincero:
Quam speciosum caniciei iudicium. Quam speciosa veteranis sapientia et gloriosus intellectus et consilium. Corona senum multa peritia et gloria illorum timor Dei.
E il Levitico vi insegna di alzarvi davanti al vecchio e di inchinarvi riverenti a lui:
Coram cano capite consurge et honora personam senis.
E con lui fanno i libri di Giobbe e dei Proverbi:
In antiquis est sapientia et in multo tempore prudentia (Giobbe).
Corona dignitatis senectus, quae in viis iustitiae reperitur (Proverbi).
Dignitas senum canicies (Proverbi).
Corona senum filii filiorum dignitas senum canices (Proverbi).
E bastino le citazioni. Se ve ne offrissi cento, mille, direbbero tutte la stessa cosa.
Ora è il pessimista, che si turba davanti agli acciacchi e alla debolezza della vecchiaia; ora l'ottimista che ne contempla con venerazione la canizie argentina e ne ammira la prudenza, il senno e tutte le altre virtù, che derivano dall'aver molto veduto, molto pianto e molto goduto.
Fra gli uni e gli altri oscilla la grande folla umana, che desidera e teme in una volta sola la vecchiaia; ne sa il più delle volte, se sia il timor della morte o l’amor della vita (che son cose diverse, benché conducano poi allo stesso fine), che le faccia desiderare la vecchiaia.

Nella società moderna il vecchio ispira pietà e rispetto; pietà per le sua debolezza, rispetto per l’esperienza accumulata ed anche per un'inconscia ammirazione per tutto ciò che ha saputo resistere al tiranno dei tiranni: il tempo.
La parola di veterano è poco diversa da quella di vincitore, e il vecchio ha saputo vincere il potente dei potenti, colui che tutto abbatte, schianta e distrugge.
Pietà e rispetto circondano il vecchio nella famiglia e nella società, la dove l’egoismo o la miseria non e più forte dei sentimenti benevoli. Purtroppo quando la fame e l’ambiente in cui si vive il giorno e la notte, quando gli occhi del proletario contano dolorosamente le bocche e i bocconi intorno al desco, trovando sempre uno squilibrio crudele fra quelle due cifre; pietà e rispetto scompaiono davanti alla voce straziante e animalesca dei vuoti ventricoli. Se il labbro tace, dalle viscere affamate sorge un urlo di belva, che se non parla con la bestemmia o con la maledizione omicida, si traduce in uno sguardo ferino, che invoca la scomparsa di un vecchio: l’equilibrio delle bocche e dei bocconi.
A questi omicidi pensati, ma non compiuti, provvederà la giustizia dell'avvenire; provvederà il maltusianismo previdente dei posteri.
Nelle classi agiate e ricche, dove i bocconi sono sempre in maggior numero delle bocche, la soppressione del vecchio non è invocata mai né dalla bestemmia omicida né dal muto e feroce rancore; ma l'uomo canuto non ha ancora il suo posto al sole, benché il Vangelo abbia quasi venti secoli di storia: e questo più per colpa dei vecchi che della società in cui vivono.
L'igiene ancor bambina, la lotta per la vita che ci fa vecchi prima dei cinquant'anni, l'abuso di tanti eccitanti fisici e morali, l'inconsulta sete della voluttà, danno ai più la decrepitezza prima della vecchiaia e giustificano il paradosso di Terenzio che la vecchiaia è una malattia.
Di qui la pietà sempre superiore al rispetto; mentre io vorrei inutile affatto il primo sentimento, alto fecondo e universale il secondo.
Perché ciò avvenga, è il vecchio che deve provvedere con tutte le forze che gli rimangono, con tutta l'esperienza di cui è tanto ricco. Egli da solo deve conquistare e mantenere il posto che la natura gli ha assegnato nell'organismo sociale. Egli deve respingere la compassione di cui non ha bisogno, non deve invocare la pietà che gli è inutile; nulla chiedere e nulla accettare come elemosina e avere per diritto quanto gli spetta nel riparto del bene e del male fra gli uomini.
Alla propria felicità deve provvedere egli stesso con una savia economia delle forze, col tener alta la propria dignità fisica e morale; cercando di nascondere i guasti del tempo con una cura maggiore della propria persona, con l'indipendenza del carattere.
E deve farsi amare, perché degno d'amore, perché generoso in vita di ciò che presto dovrà abbandonare per forza; perché egli non ruba il posto ad alcuno, e dove egli sta è giunto col lavoro onesto, con la vita intemerata.
Egli non ha diritto a minori gioie e a una felicità più incompleta del giovane e dell'adulto. Soltanto, gioie e felicità devono essere diverse in lui, non minori mai.
Ad ogni età un clima diverso, ma fiori sempre e frutti sempre.
Non è men bello l'albero quando ci dà l'ombra delle sue foglie verdi o il profumo dei suoi fiori o il sapore dei suoi frutti.
All'adolescenza le foglie, al giovane e all'adulto i fiori, al vecchio i frutti.
L'albero che non ha né foglie, né fiori, né frutti, non è vecchio, ma è morto. E i vecchi decrepiti sono morti che camminano.
Ed io non voglio la vecchiaia agonia della morte, ma crepuscolo roseo di un sole che tramonta; senza rimpianti e senza dolori.
Capitolo Secondo: L’amore nella vecchiaia


Adhue multiplicabuntur in senecta uberi.

Salmi 61, 62


Les femmes regardaient Booz plus qu'un jeune homme,
Car le jeune homme est beau, mais le vieillard est grand.

Le vieillard, qui revient vers la source première,
Entre aux jours éternels et sort des jours changeants;
Et l'on voit de la flamme aux yeux des jeunes gens,
Mais dans l’œil du vieillard on voit de la lumière.

V. HUGO, Booz endormi

Se aprite un libro di fisiologia, vi leggete che la donna fra i quarantacinque e i cinquanta anni vede cessare il tributo lunare e che l'uomo dopo i sessanta non può più combattere le dolci battaglie d'amore.
Queste cifre son varie secondo gli osservatori, varie secondo i climi e la costituzione di ciascuno; ma oscillano sempre fra punti molto vicini.
Queste cifre crudeli ci dicono quindi che, come nelle piante così nell'uomo, la vita dell'individuo sopravvive a quelle della specie e che il carattere più saliente della vecchiaia è forse quello di dover rinunziare ai piaceri d'amore.
L'igienista ricalca i suoi precetti sui dati che gli porge il fisiologo, e ci insegna di non tormentare organi condannati dalla natura al riposo e ci dice di non cercar fiori fra le nevi e i ghiacci dell'inverno.
Un organo morto non può esercitare funzione alcuna: un organo morto non ha bisogni, né desideri, e il vecchio non dovrebbe soffrire del digiuno d'amore per la semplicissima ragione che, non avendo bisogno di magiare, non ha fame.
Noi altri fisiologi e scienziati però siam sempre costretti, quando cerchiamo di segnare i contorni di un fenomeno o di formulare i regolamenti di una funzione, a recider sempre qualche cosa, a mutilare qualche nesso, che tien riunito il fenomeno o la funzione con tutti gli altri fenomeni e tutte le altre funzioni, che si muovono o vivono con essi.
L'uomo di scienza parla coi dogmi e coi numeri, e la natura strilla e talvolta anche si ribella contro le necessarie prepotenze dei dogmi e dei numeri.
Anche i codici parlano lo stesso linguaggio, ma quando essi si trovano faccia a faccia con gli uomini vivi, si vede quasi sempre che il verbo non corrisponde allo spirito, che la scienza non si può saldare con la pratica, e ad aggiustarli alla meglio vengono i regolamenti, i commenti e ahimè la densa schiera degli avvocati, vengono gli uomini della toga e vengono i giurati.
Nella pratica della vita abbiamo dunque avuto molti e anche parecchi vecchi, che non hanno rinunziato ai piaceri d'amore, sia perché sono eccezioni ai dogmi e ai numeri scritti nei libri; sia perché con artifizi diversi mantengon viva la fiamma del desiderio, che dovrebbe spegnersi con l'atrofia dell'organo.

Ma lasciamo la scienza e scendiamo al piano della vita.
L'amore coi suoi dolci tormenti e le sue care voluttà non tramonta a un tratto, come il sole all'equatore, ma ha lunghi crepuscoli, che negli organismi robusti e non logorati dagli abusi, rammenta quelli polari. Il giorno non è finito, e la notte è cominciata appena; e questa lotta della luce con le tenebre si fa così lentamente, così insensibilmente, da durar tanto quanto la vita.
E l'amore del vecchio, luce e tenebra in una volta sola, crepuscolo misterioso del polo, non tramonta che con l'ultimo sospiro e senza ch'egli abbia dovuto pronunziare le terribili e nefaste parole papali: non possumus.
Questa ideale perfezione è privilegio singolare dell'uomo monogamo e virtuoso, che continua ad amare la sua compagna anche quando le si imbiancano i capelli e incomincia il naufragio della forma.
Allora la consuetudine supplisce a ciò che il tempo ci toglie e l'esser invecchiato insieme dà quasi una nuova e più stretta parentela, che non sia quella che unisce due giovani sposi. La lunga e non interrotta catena dei dolci ricordi, le burrasche superate insieme, l'eguaglianza nella debolezza e il bisogno dei reciproci perdoni; un intendersi tutto con uno sguardo solo, formano ai due vecchi un clima tutto speciale fatto di tepori e di morbidezze; che se non è proprio amore, è qualcosa che molto gli rassomiglia e che in ogni modo è largo dispensatore di intime compiacenze e di occulte e misteriose voluttà.
Ai disinganni dell'estetica pensano poi le tenebre tanto indulgenti e pietose. Molte tenebre e un po' di fantasia rattoppano di grandi strappi e celano di grandi piaghe e tanto da superare il più abile ortopedico del mondo.Volesse Iddio che valessero anche a nasconderci le piaghe morali e le deformità dell'anima!
Oh quante volte un vecchio arzillo dopo un lauto pranzo innaffiato da vini troppo generosi, volle fare un piccolo strappo alla realtà coniugale e di soppiatto andò a comperarsi un po' d'amor giovane.
Ma con quanti rimorsi e quanto desiderio ritornò al talamo usato, maledicendo la corsa fatta in campi non suoi e l'umiliante compassione e la tolleranza mal simulata e il prezzo cresciuto all'eccesso della grazia accordata.
Con quanta gioia riabbracciò la fidata compagna, a cui trent'anni prima aveva dato la prima lezione d'amore, con quanta compiacenza riandò con lei sei lustri di carezze e riandò le scoperte fatte insieme e le nuove terre esplorate e i pudori rinascenti sotto i loro piedi nel dilettoso viaggio, come fiori sbocciati al fiato della primavera.
Oh quanta differenza fra la commedia schifosa rappresentata nella commedia della voluttà e il lungo e memore abbandono di due esistenze saldate insieme da anni!
Oh quanta differenza fra un bacio comprato e quel bacio cercato nello stesso tempo in due e in due assaporato lunghissimamente; quel bacio sempre eguale e sempre diverso, che a guisa di suggello ha segnato in ogni più piccola parte del corpo, e in ogni fibra del cuore e in ogni più profondo nascondiglio dell'anima ha intrecciate insieme le due parole: mio, nostro!

Napoleone, cinico ed egoista, ma profondo conoscitore della natura umana, disse, che se l'uomo non invecchiasse, non gli darebbe una moglie; e con queste poche parole segnò a grandi tratti e molti anni prima del Balzac quasi tutta la fisiologia e la filosofia del matrimonio.
Sì, egli aveva ragione. Se il matrimonio è ancora la forma meno cattiva del contratto d'amore fra l'uomo e la donna; è poi sempre l'unico vincolo, che permette all'uomo e alla donna di amarsi, anche quando fisiologia e igiene li avessero messi all'indice.
Il volgo ripete ogni giorno con volgarissima menzogna, che fra due sposi l'amore si trasforma a poco a poco in amicizia.
No e poi no: il sentimento che lega due vecchi che hanno attraversato insieme una lunga vita, non è amicizia, ma è ancora amore e amore sessuale. Non è l'amore ardente e vulcanico del giovane, non l'amore dotto e ingegnoso dell'adulto; ma è sempre amore.
Un amore pieno di dolci e misteriosi ricordi, ignoto al mondo tutto e che formano il delizioso ed esclusivo segreto di due corpi e di due cuori.
Un amore pieno di indulgenze, di concessioni, di generose bugie e di tenerissime ipocrisie.
Un amore pudico, perché ha molto da perdonare e da farsi perdonare, un amore che osa esser libertino, ma senza violenze, che sa di non poter peccare; un amore ritornato puerile e timido, ma rimasto parecchio birichino e capriccioso.
Un raggio di sole, che squarcia le nubi nere di un temporale e cade sopra la candida neve polare, e par che la riscaldi e la disciolga con un fiato di calda tenerezza!
Se l'amore di due vecchi può esser giocondo, diventa poi giocondissimo, se è benedetto dalla fecondità. Allora rassomiglia in tutto al più caro e al più bello fra gli alberi, il limone; sempre verde di foglie, sempre profumato di fiori, sempre ornato di frutti.
I nostri figlioli sono specchi viventi, nei quali due creature di sesso diverso si guardano e si contemplano con intima e misteriosa compiacenza.
Un figlio guardato nello stesso tempo dall'uomo e dalla donna, che li hanno fatti, è lo spettacolo più giocondo per gli occhi, più inebriante per l'anima.
Più d'una volta due felici mortali, da quello specchio vivente riportano gli occhi sopra se stessi, scambievolmente e lungamente. Un sorriso in due dice loro, che si son ricordati della stessa cosa e nello stesso istante. Un ricordo che il mondo ignora e che porteranno essi solo nella tomba. Il ricordo di una carezza diversa da tutte le altre, e che ha generato quella creatura; una voluttà non mai dimenticata e da tutte le altre diversa e che rimase improntata in un lineamento, in un gesto; che è fusione di due carni e di due sangui.
La Bibbia dice che il Creatore, dopo aver guardato il mondo fatto da lui, se ne compiacque e sorrise.
E come non sarà divino il sorriso, quando son due i creatori, che guardandosi nello specchio della loro fattura, si rivedono vivi e giovani, come quando in un amplesso potente e innamorato, riaccesero insieme la fiaccola della vita?
È il frutto saporoso che rammenta a quei due il fiore profumato, da cui nacque; è un mirabile accordo del passato e del presente; è la visione vaga e misteriosa dell'avvenire, di cui quei due sono gli artefici fortunati.
Se un raggio di sole, toccando la punta di un ago lucente, si frange in aureola scintillante di luce; se rompendosi nella gocciola della pioggia, si distende nell'iride di un arcobaleno; gli sguardi dell'uomo e della donna, che insieme passano attraverso la loro creatura, formano un altro arco di luce celeste, che congiunge il passato all'avvenire, riempiendo l'anima di estasi e di beatitudine.
È il creatore, che dopo la creazione se ne compiace e sor ride!
Ma non tutti gli uomini vecchi hanno una moglie: abbiamo la lunga schiera dei vedovi e la lunghissima dei celibi, ribelli per tutta la vita al matrimonio e che in fatto d'amore son sempre vissuti di rapina o di voluttà pagate.
Tutti questi infelici hanno in generale perduto la loro virilità prima dei mariti; dacché è un dogma, che nulla conserva certi preziosi poteri quanto l'ambiente costante e tranquillo del matrimonio. In questo caso, avvezzi da lungo tempo ad una grande irregolarità nell'esercizio delle loro facoltà riproduttive, abituati ai lunghi digiuni interrotti da pasti gargantueschi (veri selvaggi dell'amore) si rassegnano a intermittenze più lunghe delle solite e di digiuno in digiuno sopportato facilmente per la fame diminuita, giungono senza rimpianti alla castità assoluta.
Ricordano il passato con compiacenza e si rassegnano al digiuno d'amore. Non ci rassegnamo forse a perdere i capelli e i denti, a vederci il volto solcato dalle rughe; non portiamo forse gli occhiali senza piangere e non assistiamo ad una festa da ballo senza ballare?
L'uomo perfettamente sano però e che ha navigato per tutta la vita nel mare della voluttà, col timone in mano e con la bussola davanti agli occhi, muore anche oltre gli ottant'anni, senza aver abdicato mai del tutto alle dolcezze d'amore.
Gli rimangono le lunghe e estetiche contemplazioni di una fra le più belle creature. Gli rimangono le innocenti carezze e tutte le svariate adorazioni di un Olimpo, che è ricco di Dei e di Dee più del cielo indostano. E se scrivessi in India e per gli indù potrei a questo proposito discutere e commentare e distinguere, conciliando l'igiene con la morale e facendo camminare a braccetto la voluttà col galateo della penna.
Ma son nato europeo e scrivo per europei, e la mia penna che fu sempre ardita, ma che può vantarsi di non aver mai insegnato ai libertini una leccornia nuova, né di aver mai rotta una maglia della fitta rete che difende il pudore, s'arresta e tace.
Il medico igenista si accontenta di dire al vecchio:
Non usate mai e poi mai afrodisiaci. Suscitano in voi falsi desideri, vi darebbero false gioie, accorciandovi la vita; facendovi vergognosamente morire fra le braccia dell’etere.
Se vi sorride un desiderio spontaneo, naturale, entrate pure nel tempio, dove non si domanda mai la fede di nascita ma si richiede la patente della virilità. E in ogni caso fate sempre la metà di ciò che vorreste fare.
E se avete la fortuna di conservarvi belli anche a sessant’anni, e se per di più un’aureola di gloria illumina i vostri capelli bianchi e vi fa ancora desiderare dalle donne; fate pure senza vergogna la parte del casto Giuseppe, e fatevi pregare, come se foste una donna giovane e bella. Non tentate mai di conquistare, òa lasciatevi conquistare. Il ridicolo è il più spietato assassino dell’amore. A lui nessuna passione resiste e a lui si piegano sottomesse tutte le forze della terra.

Capitolo Terzo: L’amicizia nel vecchio


Coram cano capite et onora personam senis.

Levitico, 10



Senes non fiunt amici cito.

Aristotele

L'adolescenza e la giovinezza sono le età dell'amicizia. Rarissimo è far amici nuovi nell'età adulta, quasi impossibile nella vecchiaia.
Sentimento di lusso non fiorisce che nei terreni fecondi e sotto il sole ardente della primavera della vita, quando ogni siepe, ogni prato, ogni zolla di campo e ogni arbusto di foresta spande nell'aria i profumi di mille corolle.
Venuta l'estate, non più mammole né primule; né tutti quegli altri primi fiori freschi e sereni come il cielo d'aprile. All'amicizia tien dietro l'amore e nella rosa par che si concentrino tutte le energie della vita gaudente e innamorata. L'amicizia perdura, ma si ritira nel fondo della scena, come i cori davanti al tiranno.
Nella donna poi la maternità con le sue onde feconde e tumultuose dilaga talmente per ogni lato, da affogare o almeno da raffreddare tutte le amicizie del passato.
Per far degli amici conviene sentir calde le simpatie, che avvicinano i cuori e fondono le anime. Conviene sentirsi forti e generosi, pronti ad ogni sacrifizio, felici anzi di poter fare. Se non temessi di profanare uno dei più alti sentimenti, direi che nell'adolescenza e nella giovinezza noi siamo come un polipo gigante, che stende dovunque i suoi tentacoli, abbracciando e stringendo ogni cuore che risponda alle nostre simpatie, pronte a sorgere e avide di consensi. Si è tanto ricchi in quelle età beate, tanto prodighi di se stessi agli altri! Allora il dare non impoverisce, lo scialacquare non sgomenta. Se oggi abbiam dato metà di noi stessi, siam sicuri che l'alba dell'indomani ci troverà di nuovo ricchi come eravamo oggi; pronti sempre a dare e a scialacquare.
E così come i polipi nelle battaglie della loro vita carnivora, vanno perdendo dei loro tentacoli, divorati dai pesci più forti o schiantati fra le fessure delle rocce, così anche noi nel cammino della vita andiamo sempre stringendo l'ambito delle nostre braccia e delle nostre simpatie, e giunti sulla soglia della vecchiaia siamo anche noi polipi mutilati, pieni di cicatrici e poveri di tentacoli.
Ad ogni tentacolo divorato o spezzato corrisponde un amico perduto.
Oh quanto ci era caro quel fratello dolcissimo dell'anima nostra, con cui avevamo intrecciati i primi giuochi nel cortile comune della casa paterna; a cui avevamo affidati gli arcani e misteriosi segreti della pubertà; con cui avevam diviso le torture della scuola, i primi sogni dell'ambizione, le spensieratezze delle lunghe vacanze; a cui avevamo confessato le prime colpe, che ci avevano fatto arossire!
Eppure quell'amico, che per venti anni era vissuto con noi e per noi, con cui avevamo comuni il sangue e il pensiero, ci abbandonò e per poco divenne nemico; perché il caso volle che amassimo la stessa donna!
E quell'altro, di cui eravamo innamorati quasi come fosse una fanciulla, tanto era bello e gaio e divertente, dove se n'è andato? Oh lontano lontano, al di là dei mari. Esciti dall'Università, ognuno di noi dovette scegliere la propria via; ed egli se n'è andato nell'Argentina.
Ricordo ancora quando l'accompagnai a Genova sulla nave che doveva portarmelo via. Ricordo le lagrime amare, i singhiozzi, gli abbracciamenti lunghi e strazianti della nostra separazione. Ricordo che gli ufficiali di bordo dovettero quasi buttarmi giù dalla scaletta del piroscafo. Ricordo, come se fossero di ieri, i saluti convulsivi, che dalla mia barchetta gli andavo gettando da lontano...
Eppure oggi non ci scriviamo più e ignoro perfino dov'egli sia. Prima le nostre lettere erano d'ogni mese, poi si andaron facendo sempre più rade; una ogni due, ogni tre, ogni quattro mesi; poi una alla fine dell'anno e poi più nulla.
Ancora un braccio del polipo consunto dal tempo, che lima e arrugginisce i metalli più saldi.
E quell'altro ancora, le cui delicatezze femminili mi facevano da barometro e da galvanometro, per cui parlando e discutendo con lui sapevo prevedere le procelle più lontane che mi minacciavano, e attraverso i suoi nervi potevo dire di vivere della vita di tutti; non s'è forse allontanato da me, dopoché ebbi sposato una donna che a lui parve bellissima?
Non ci fu verso di tenerselo vicino. Io ero sicuro di lui e di lei; e glielo facevo capire in ogni modo, ma sempre delicatissimamente. Eppure non ci fu modo di persuaderlo a frequentare la nostra casa. Temeva egli di sé o di lei o di chi? Mi credeva forse geloso o capace di divenirlo?
Non potrei mai cavargli una parola a questo proposito. Cercò un impiego molto lontano da noi e non l'ho più veduto che a lunghissimi intervalli.
E quanti altri amici preziosi, che la politica e la morte mi hanno rapito!
Da giovane ne avevo una legione; oggi una mano sola mi basta per contarli.
Ma, fortunatamente, anche per l'amicizia vale la legge, che governa tutti i fenomeni fisici e biologici. L'intensità è uguale all'estensione, e i pochi amici rimasti al vecchio, i pochi rispettati dalle lotte delle passioni, dal contrasto degli interessi, dalla morte, vivono ancora e son divenuti quasi membra vive del suo organismo.
Avere parecchi e ottimi amici può essere opera della fortuna, ma più di questa ci procura questa grande, questa alta gloria della vita l'avere un cuore largo e generoso, avere un carattere simpatico, tollerante, il saper compatire molto e ammirare moltissimo. Insomma è merito nostro l'aver ottimi amici, e se abbiamo saputo conservarceli attraverso la vita, possiamo andarne gloriosi; più che l'aver colto qualche corona nelle giostre molteplici del circo umano. È una gloria a cui i posteri non daranno monumenti, né battesimi di vie o di città, ma che ci avrà benedetto la vita e rimarrà negli archivi della famiglia, come titolo onorando della più nobile della nobiltà, quella del cuore.
Se l'amicizia nella giovinezza è uno dei tanti fiori, e diciamo pure dei più belli, che le fanno ghirlanda; nella vecchiaia è un frutto saporoso, nutriente, pieno di succhi profumati, che imbalsamano la bocca, che scendon giù giù nel fondo del cuore e del paracuore; come certi vini amari e vetusti, che hanno due e fin tre sapori, con cui deliziano la lingua e il palato.
Gli amici dei nostri amici sono per lo più, anzi quasi sempre, amici nostri, per quell'assioma matematico, che due quantità eguali ad una terza sono eguali tra loro. Ne vien quindi, che il vecchio buono e sapiente ha intorno a sé come una corona di uomini, che si amano tutti tra di loro e che son stretti scambievolmente da una specie di parentela, dove, se non entra il sangue così spesso traditore, entra però l'elezione, che è consanguineità altissima delle intelligenze.
E quando uno di quei vecchi è rapito dalla morte, pare che l'anima sua trasmigri nei compagni del suo circolo, e in ognuno di essi ne entri una parte; quasi un'inconscia eredità di affetti, di memorie, di consapevoli e intime simpatie.
L'amico è morto, ma i superstiti lo hanno ereditato e assorbito e nel circolo comune rimangon vivi i suoi motti spiritosi, i suoi tic speciali, le sue innocenti manie, per cui la voce sua rimane ancora fra quelle voci, il suo pensiero pensa sempre con gli amici suoi; e se potesse alzare il capo dalla tomba, vedrebbe che la parte migliore della sua eredità è rimasta, senza bisogno di testamento, in quel crocchio di teste canute, strette fra di loro dalla santa fratellanza d'elezione.
Ad ogni amico che scompare, le file si serrano e il circolo si restringe, guadagnando in intensità ciò che è andato perdendo in estensione; e quando son due o tre soli i rimasti, concentrano in sé tanti tesori di memorie, tante tenerezze si affetti, tanta irresistibilità di simpatie reciproche da formare una vera e propria famiglia, in cui la parentela non porta nomi speciali, ma che è un succo condensatissimo di tutto ciò che ha di più caro e di più alto l'umana natura.
Da quei circoli non è esclusa la donna, anzi vi entra, vi porta una nota tutta speciale delle delicatezze e delle morbidezze del proprio sesso, dando alla conversazione un sapore di pudica e calda sensualità e spargendo sugli uomini e sulle cose come una luce, che abbia attraversato un vetro color di rosa.
Chi rammenta gli intimi saloni dell'amica di Chateaubriand, di Madame Recamier, di M.ma Swetschine e della nostra Clara Maffei, può ripensare tutte le gioconde conversazioni di molti vecchi illustri, che hanno lasciato il loro nome e la loro gloria alla Francia e all'Italia. Ma anche senza il lusso della gloria intorno al fidato tavolino di un caffè o di un domestico tresette possono addensarsi e concentrarsi tante care compiacenze, tanti fidati consensi di pensieri e di simpatie, da indorare la vecchiaia di tutti coloro che non aspirano che alla modestia gloria di morire onorati e senza macchia.
Davanti alla felicità, anche la gloria abbassa le ali e democraticamente rinunzia al frastuono delle artiglierie e delle campane, rinunzia agli inni dei poeti e agli archi di trionfo.
La natura, spesso più giusta della nostra giustizia togata, non ha mai misurato la gioia col metro del genio ma la dispensa a tutti i cuori onesti e sinceri, che non hanno mai fatto versare una lagrima, né oltraggiata una virtù.

Tutti coloro che negano la possibilità di un amore platonico, ammettono l'amicizia fra un vecchio e una vecchia, benché anche in questo caso la circondino di molte reticenze non prive di malizia maligna.
Quei due si amano, perché hanno ricordi comuni, lontani lontani, ma che vibrano ancora. Chissà, che qualche postuma prurigine faccia loro credere di essere ancora capaci d'amare. Ma non vogliamo malignare: il sentimento che unisce quei due può essere una vera e pura amicizia.
Così dicono i maligni, che pur sono la parte maggiore dell'umanità, quando vedono due vecchi che stanno bene e volentieri insieme e si chiamano amici.
Noi che non siamo maligni, crediamo il contrario.
Due che si sono amati da giovani, dopo lungo scorrere di anni possono rivedersi vecchi e spesso cercano quell'incontro con avida curiosità, sperando di riannodare la dolce catena da tanto tempo spezzata; di ritrovare a un tratto una fiamma miracolosa, che riscaldi i loro cuori di ghiaccio.
Consiglio con tutte le forze, con tutta l'energia di una profonda e provata convinzione, di soffocare quella curiosità e di sfuggire da quelli incontri.
Un amore passato è un morto e i morti si seppelliscono o si cremano. Rispettate le tenebre della terra e il segreto delle urne. Non rimescolate i cadaveri e non profanate le ceneri.
Voi avete sempre davanti agli occhi vostri la donna che avete amato trenta o quaranta anni or sono come un'immagine affascinante di giovinezza e di venustà. Ne avete di certo il ritratto in qualche santuario della vostra casa e guardandolo talvolta nelle ore malinconiche dei ricordi, l'avete riveduta come quando vi appariva trepida e voluttuosa nei ritrovi d'amore. Voi, guardandone l'immagine o ricordandola, rivivevate un'ora della vostra giovinezza. Era un fantasma, ma era anche un angelo; era un sogno, ma di ebbrezza e di voluttà.
E invece la vostra malsana curiosità vi ha voluto far palpare la realtà nuda e cruda. Ne siete punito e crudelmente. Le memorie d'amore vivono nel tempio, e voi, profanatore di un altare, siete stato punito dal Dio oltraggiato.
E vi ha fulminato, distruggendovi il sogno e facendo del vostro angelo una diabolica creatura.
Il vostro angelo non è più che una vecchia. I capelli lucenti e corvini son grigi o bianchi. Gli occhi hanno perduto ogni bagliore di passione, stanchi d'aver troppo veduto. La bocca, che vi ha tante volte baciato, facendovi perdere i sensi, è divenuta la fessura di un salvadanaio e i denti fra veri e falsi son tutto un cimitero abbandonato. Nessuna linea di quel corpo risveglia un desiderio; nessun movimento si accompagna con una grazia. Ad onta dei cento puntelli dell'arte ortopedica e cosmetica è un edifizio che si sfascia.
E quel quadro si sovrappone brutalmente alla miniatura deliziosa, che avevate eterna nel cuore e ne ricevete un urto violento; come d'un pugno psichico, che vi atterra e vi offende.
È il Dio delle sante memorie d'amore, che avete voluto oltraggiare e che vi fulmina, come Jehova fulminava i violatori del Sancta Sanctorum!
E ciò che voi avete provato e ciò che voi avete sofferto vedendo lei, lei ha provato e sofferto, vedendo voi, che avete perduto le chiome ebanine e avete solcato il volto di rughe e forse forse avete anche una pancia.
Due disinganni, due caricature che si mettono al posto di due santi e dolci ricordi, che il cuore attraverso gli anni aveva lasciati intatti e sempre giovani. E badate, che l'ultimo dei ritratti vi rimane così crudelmente inchiodato negli occhi che ad ogni volta che vorrete ricordar lei giovane e bella, vi troverete invece dinanzi sempre il ritratto più recente; quello della vecchia deforme.
Ben diversamente accade quando i due amanti, siano poi consacrati dal sindaco o dall'amore, invecchiano insieme. Allora nessun confronto odioso può fulminarli e come abbiamo già veduto, essi possono amarsi sempre, mutando forma l'affetto che li lega, ma non mutando natura.
Vi è però un'amicizia purissima, che lega l'uomo alla donna, quando essi cioé non si son mai veduti giovani, ma si sono incontrati, quando insieme scendevano per la china degli anni.
Negare questo sentimento sarebbe spingere scetticismo e pessimismo al superlativo e sarebbe forse disonorare e calunniare la natura umana.
La donna, dopo aver perduto i diritti del sesso, rimane pur sempre un uomo, e tutta la tenerezza del cuore e i tesori del pensiero possono fare di lei un compagno carissimo, un vero amico.
Si possono invidiare gli amanti di Georges Sand, ma io per conto mio invidio più ancora gli amici, che ebbe fidi e numerosi anche nella sua vecchiezza.
Se con gli anni la donna non può più risvegliare alcun desiderio, di lei rimangon sempre vive le tenerezze dell'anima e i delicati accorgimenti, le care civetterie del pensiero, la mobile vivacità delle impressioni, la sua carità per chi soffre: insomma tutto ciò che la fa donna nel mondo del sentimento e dell'intelletto.
I sentimenti sono più elastici, più mobili e soprattutto nelle loro forme svariate e nei loro infiniti gradi più numerosi delle nostre parole.
Fra un uomo e una donna il nostro dizionario non ammette di sentimenti affettuosi, che l'amore e l'amicizia, che sono infatti le due forme più distinte; ma nella pratica della vita possiamo trovare amori amichevoli e amicizie amorose e tante altre forme intermedie, che oscillano fra quei due poli ben definiti.
Per decidere poi, se sia amore o amicizia l'affetto che lega un uomo ad una donna, non vi ha che una sola pietra di paragone, ma che io credo infallibile nei suoi responsi.
E questa pietra è il desiderio.
Finché esiste un desiderio del possesso sessuale, fosse pur pallido e freddo come un'alba di gennaio; finché si può pensare ad una carezza o ad un bacio dato o ricevuto con voluttà; l'affetto non è d'amicizia, ma d'amore.
Per potersi dire, per potersi sentire amici, e null'altro che amici, un uomo e una donna devono, trovandosi insieme, aver bevuto l'acqua di Lete; per cui l'uno e l'altro hanno del tutto e per sempre scordato di essere Adamo ed Eva. E quell'acqua devono averla bevuta in due, dacché se uno solo desidera e l'altro no, il contrasto dell'amicizia con l'amore offusca ogni sincerità di rapporti, creando ad ogni contatto dei pensieri urti spiacevoli e attriti stridenti.
L'amicizia pura, l'amicizia vera, quella che al tasto della mia pietra di paragone ha dimostrato da ambo le parti l'assoluta assenza del desiderio, è una delle maggiori delizie, che indorano gli ultimi anni della nostra vita.
L'esser della stessa età vuol dire avere una parentela comune con le cose, con la natura, con gli uomini. Vuol dire aver ammirato gli stessi eroi e disprezzato gli stessi farabutti; vuol dire aver esultato alle stesse feste e pianto alle stesse sciagure nazionali. Vuol dire in una parola esser piante della stessa terra, uccelli della stessa covata. Vi è una lingua, somma di mille consensi, che non possono parlare insieme e intendere che gli uomini d'uno stesso tempo. Contemporaneo è spesso più che compaesano, è una specie di parentela psichica, che si sovrappone e si confonde con molte altre consanguineità.
E quando i coetanei sono un uomo e una donna, questa parentela d'ambiente cresce ancora e si affina; perché l'una e l'altro hanno vissuto insieme, ma della vita hanno sentito e veduto una parte diversa: sommate insieme le due parti, ne viene il tutto di un'epoca, di un ambiente artistico, di un periodo storico, di un'evocazione religiosa.
Ecco perché più d'una volta, un vecchio e una vecchia, seduti accanto l'uno all'altra in comode poltrone, tra l'una e l'altra presa di tabacco, dopo una lunga conversazione, tacciono lungamente, guardandosi negli occhi o tenendosi per mano.
Hanno in quei dolci momenti una visione comune, quella di un passato già molto lontano, in cui vissero insieme e nel cui giudizio si trovano d'accordo. Senza pretesa di storici né di filosofi hanno letto insieme una pagina di storia e l'hanno commentata benevolmente e con grande indulgenza; dacché tutti i vecchi sani e buoni son sempre ottimisti.
I romanzieri, i moralisti hanno fatto sempre brontoloni i vecchi, ce li hanno sempre descritti come seccanti laudatores temporis acti. Io invece descrivo il vecchio ideale, come io vorrei che lo fossero tutti; il vecchio felice di leggere la storia perché dimostra che il passato fu cento volte peggiore del presente; il vecchio che d'una cosa sola è dolente, di esser nato troppo presto, perché egli morrà nella beata sicurezza, che il futuro sarà migliore del presente.
E i miei due vecchi amici parlano spesso insieme di questa cara fede.
Lei per dire che nel futuro gli uomini non si faranno più la guerra. Lui per assicurare, che la scienza sarà sempre la padrona del mondo e guarirà sempre le ferite, anche quelle fatte con le sue proprie armi.

Capitolo Quarto: Il pensiero nella vecchiaia

In antiquis est sapientia et in multo
tempore prudentia.

Giobbe, 12


La vie de l'esprit se fait voir (dans la vieillesse) sous un autre aspect, sans interrompre son acti-vité; il y a transformation, il n'y a point détérioration. Si des pertes ont lieu, on a fait aussi des conquétes... En pesant, en estimant les résultats avec sincérité, peut étre trouvera-t-on, en effet, que la vieillesse a plus gagné que perdu.

Reveillé-Parise

Si crede da molti che il vecchio, come è debole alla corsa e al salto, lo sia anche nel pensiero. Si crede che egli sia un invalido dell'intelligenza; che da lui non si possa aspettar più nulla che possa illustrar l'arte, le lettere o la scienza; che non si possa, né si debba esiger più nulla da un cervello smemorato, stracco; per poco non so dire, da una mente imbecille.
E si cita il grande Lucrezio:

Post ubi jam validis quassatum viribus oevi
Corpus et obtusis ceciderunt viribus artus,
Claudicat ingenium, delirai' lingua que, mensque:
Omnia deficiunt, atque uno tempore desunt.

Lucrezio in questi versi ci dipinge il vecchio decrepito, non il vecchio fisiologico, e alla citazione pessimista del gran poeta latino io potrei contrapporre una pleiade gloriosa di vecchi, che sull'orlo della fossa continuarono ad onorare l'umano pensiero.
Potrei citare Tiziano, che a novantanove anni dipinge ancora quadri stupendi.
E Michelangelo ottuagenario, che fino alla morte merita il battesimo di divino.
E l'altro divo dell'antichità, Platone. E Lesage, che termina il suo immortale Gil Blas a sessantasette anni.
E Lafontaine, che a sessant'anni pubblica la seconda raccolta delle sue Favole.
E Goethe, olimpico sempre anche dopo gli ottant'anni.
E quel vulcano di spirito e di arguzie che è il Voltaire il cui ingegno non invecchiò mai.
E Humboldt, che presso i novant'anni scrive il quarto volume del suo Cosmos.
E Fontenelle e Chevreul, centenari e non mai imbecilli.
E Duverney, l'anatomico, che ad ottant'anni si fa applaudire nella Accademia di medicina, come oratore potente.
E la Sand, che nei suoi ultimi romanzi scritti dopo i settant'anni non mostra nessuna fiacchezza nel suo poderoso ingegno di scrittrice.
E Palmerston e Gladstone, che governano l'Inghilterra e potrei dire più che mezzo il mondo civile a più di ottant'anni.
E tanti e tanti altri, che nell'estrema età della vita continuano a pensare altamente e a fare con energia.
Ma voi potreste dirmi che i geni fanno classe a parte, che sono rare e onorevolissime eccezioni.
Ed io allora direi subito che noi ci occupiamo soltanto dei grandissimi, perché essi soli fermano l'attenzione universale; ma che anche negli strati medi e bassi dell'intelligenza abbiamo vecchi, che negli affari pedestri della vita o nelle industrie o nei commerci conservano in tutta la vigoria i nervi del pensiero.
È per me uno dei pochi dogmi incontrastati della biologia, che il primum nascens è l'ultimum moriens; e così come nell'uovo fecondato la prima forma che si disegna è l'asse cerebrospinale; così nell'organismo che muore l'ultimum moriens è il cervello, con le sue mille o proteiformi energie.
E il mio dogma non è soltanto vero nel suo complesso e preso nella sua sintesi più larga, ma si afferma nei più minuti particolari. Ognuno di noi nasce con diverse attitudini, che segnano il sentiero in cui cammineremo per tutta la vita; ma nella giovinezza tutte quante a volta a volta e magari tutte insieme esigono il loro posto al sole.
Il cervello dell'uomo giovane è un giardino, in cui sbocciano nello stesso tempo molti fiori e noi non ci curiamo di vedere quale di essi dia più ricca messe di corolle. C'è tanto da vedere e da ammirare! Ma più innanzi nella vita i fiori dati dalle piante più gracili e delicate avvizziscono e rimangono quelli soltanto delle piante più robuste e che nel terreno d'ogni cervello trovano il campo più adattato alla loro natura.
E se invece dell'immagine dei fiori ne volete una forse più fedele, vi dirò che il cervello di un giovane è un orto che dà molti e svariati frutti; ma non tutti giungono alla maturità, mentre quello d'un vecchio è un orto che dà meno frutti, ma maturan tutti e son più saporosi e più nutrienti.
E gli alberi, che nell'orto del vecchio continuano a dar frutti sono i più robusti, quelli che eran più conformi alla sua particolare natura.
Il primum nascens anche qui si manifesta l'ultimum moriens.
L'Azeglio nasce artista, ma oltre il genio dell'arte ha anche un vivo amor di patria, ha anche un culto sovrano per la libertà, ha anche un buon senso tetragono. Orbene nella sua giovinezza e nella sua età matura egli è a un tempo pittore, scrittore, soldato, uomo politico; ma giunto alla vecchiaia gli alberi minori non danno più frutti o pochi soltanto, e in lui sopravvive il grande artista e si diletta soltanto della pittura, l'ultimum moriens di quel cervello tanto italiano e tanto polimorfo.
E nella vita di tutti i grandi uomini, e specialmente di quelli che possiamo chiamar polimorfi perché dotati di diverse energie, potreste verificare l'esattezza del mio dogma.

Ma vediamo di approfondire lo scalpello nelle profonde fibre del cervello umano, segnando i caratteri propri dell'ingegno nella vecchiaia, onde sfatare, se è possibile, il detto volgare e pessimista, che il vecchio sia poco meno che un imbecille, che finisce i periodi a suon d'orecchio, che pensa col pensiero degli altri, che nulla più produce di buono, di bello, di utile all'umana famiglia.
Eccovi dunque il bilancio del pensiero del vecchio.


Bene Male
Prospettiva serena del passato. Debolezza di memoria.
Maggior sensibilità estetica. Poca pazienza d'analisi e d'osservazione.
Convinzioni profonde e sicure. Minor resistenza al lavoro.
Sintesi più larga. Difficoltà di assorbire nuove cognizioni.
Facilità nella tecnica del pensiero. Più fiacca la creazione.
Maggiore elasticità nel maneggio della lingua. Più debole la fantasia.
Carattere più virile dell'eloquenza.
Grande attitudine politica.
Associazioni di idee più numerose e più facili.
Grande attitudine stereoscopica nell'abbracciare ad un tempo tutti i lati di un problema.

Il giovane non ha passato: egli è l'uomo del presente e soprattutto dell'avvenire, e nei suoi giudizi manca quasi sempre la più esatta delle misure, che è appunto il confronto del passato col tempo che è, col tempo che sarà. Egli può studiare la storia, ma ben di raro lo farà per piacere.
Il vecchio invece ha veduto molto, molto sofferto e molto goduto. Nella sua lunga esperienza ha dovuto correggersi molte volte nei giudizi dati con troppa fretta o ispirati da troppa passione. E quindi più giusto, più equanime. Egli non odia il passato, ma neppure teme l'avvenire; perché sa che sono anelli di una catena, che non ha interruzioni né rotture. Egli era darvinista dieci secoli prima che Darwin nascesse, e se non è colto nelle scienze naturali o nelle filosofiche lo è egualmente, perché la teoria dell'evoluzione sta scritta in tutti i cervelli che pensano, in tutti gli organismi che vivono; da per tutto.
E il vecchio che ha vissuto molto ha naturalmente in sé una più lunga storia di evoluzioni, ch'egli contempla con grande serenità, con calma grandissima.

Il giovane, nel tumulto della sua vita appassionata, nel contrasto dei venti che agitano le vele della sua navicella coraggiosa, muta spesso di direzione e di movimento. Ora temerario si lancia nelle più pazze utopie, ora per reazione si fa conservatore arrabbiato; oggi socialista, domani difensore del trono e dell'altare; or credente, or miscredente; sempre però sicuro di se stesso e della propria fede. Quante volte ne ha mutati gli articoli!
Il vecchio invece ha trionfato delle procelle e soprattutto ha imparato a conoscere la navicella, in cui ha navigato per tanti anni. Dopo aver attraversato il mare delle dubbiezze è entrato nel porto tranquillo e sicuro di poche e sicure convinzioni. Egli non si tormenta più nella ricerca dell'inintelligibile o nella conquista dell'infinito. Al di là del suo giardino e del suo orto ha messo Dio o uno zero, e se ne accontenta. Egli ha opinioni ben determinate in religione, in politica e in morale, e non perde il tempo nel metter acqua in un cribro o nel correr dietro alle tante fate morgane, che brillano sull'orizzonte dell'uomo giovane.
Avere poche e sicure convinzioni dà al vecchio una grande sicurezza di propositi, che gli accresce valore presso gli uomini e a lui pure rende più facili e piacevoli i travagli del pensiero. Non è senza ragione, che da secoli l'umana famiglia ha sempre chiesto luce e consiglio dai vecchi. Non è invano che Senatus deriva da senex e che la mitologia cristiana dipinge sempre il Padre eterno sotto le sembianze d'un vecchio canuto.
Ecco perché egli riesce soprattutto nelle arti della politica, che appunto esige sicurezza di terreno per piantarvi edifici che non crollino al primo soffio di vento.
Il saper troppo, l'avere ali troppo robuste e genio troppo fecondo son tutti impedimenti nell'arte di governare gli uomini. Pessima poi sopra ogni altra cosa è la potenza critica in un uomo politico.
Ricorderò sempre a questo proposito ciò che rispondeva il Ricasoli a alcuni deputati di sinistra andati da lui per persuaderlo a fare una politica più democratica.
Dopo aver giustificato la sua condotta egli disse a un dipresso così:
“Io non ho grande talento; ma ho delle convinzioni profonde acquistate con il molto pensare e miro al mio scopo, miro diritto senza guardar mai né a destra né a sinistra. Guardo il mio bersaglio, e non vedo altro, e ci vado attraverso tutto e tutti. Quel bersaglio non sarà forse molto alto, ma è il mio, e ad esso concentro tutte le mie forze, tutta la mia energia”.
Senza saperlo, il Ricasoli dava in quel momento la più fedele definizione della politica e senza volerlo anche quella della fisonomia speciale del pensiero del vecchio.

Non c'è bisogno di dimostrare il perché nel vecchio la sintesi sia e debba essere più larga.
Egli ha molto veduto e nel suo cervello sono entrati tali e tanti elementi del mondo umano e del mondo cosmico, da allargargli sempre più l'orizzonte. Se il giovane è più alpinista di lui, perché ha polmoni più ampi e garretti più robusti, il vecchio ha salito più cime del pensiero e ha imparato a intendere le ombre nelle valli dell'ignoranza e a non lasciarsi ingannare da tutti i fantasmi della luce e delle meteore. Egli è presbite anche nel cervello e non soltanto negli occhi e alla sintesi questo difetto giova assai più che la miopia.
Alla più larga sintesi si associa nel vecchio anche una maggior ricchezza di associazioni nelle idee. È questa la conseguenza logica della prima virtù.
Nel giovane vi sono molti tasti che non rispondono, vi sono accordi che non riescono, perché ha molte corde vergini, che non hanno vibrato ancora.
Nel vecchio invece tutti i tasti sono agevoli, tutte le corde sono attraversate da mille correnti, e le associazioni delle idee si fanno pronte e per ogni verso; diffondendosi per tutti i territori del pensiero e del sentimento.
Questa è grande virtù e che supplisce in gran parte alla forza diminuita, all'intensità più debole della corrente prima, che si sprigiona da quel laboratorio massimo della natura viva, che è un cervello che pensa.

A supplire alla forza iniziale diminuita contribuisce assai anche la facilità acquistata nella tecnica del pensiero.
Di certo che la macchina pensante di un giovane è migliore di quella del vecchio; ma appunto perchè esce da poco dall'officina ha molta rigidità nelle sue articolazioni, per cui si muove a scatti e chi la maneggia è ancora inesperto.
Nel vecchio invece gli attriti son vinti dall'uso, le giunture son molli e pieghevoli e il macchinista ha imparato a conoscere tutti i difetti e tutte le virtù della sua macchina; per cui tutte le forme diverse di movimenti son divenute in lui quasi automatiche e si fanno senza fatica e senza esitanza.
Ciò salta all'occhio specialmente in quel lavoro altissimo, che è la parola.
Quanti intoppi, quanto balbettamento nell'uomo bambino, prima che la corrente della parola corra pei nervi alla laringe, alla lingua, alle labbra! Quanti tentativi inutili, quante storpiature, quanti involontari idiotismi, prima che l'uomo raggiunga quella bellissima equazione, che apre poi le porte all'eloquenza:
Pensiero = Parola.
Se la vita non fosse tanto breve ai mille viaggi pensati, vorrei nei discorsi politici degli oratori più celebri seguire l'evoluzione della parola attraverso le età; studiando come essa si muti passando dalla prima giovinezza alla vecchiaia. Sarebbe questo un lavoro utile e fecondo, perché ci permetterebbe di segnare a grandi linee il diverso stile dell'eloquenza, che pur rimanendo sempre alla stessa altezza, ha però tante fisionomie, quante ne hanno la pittura e l'architettura.
Se non ho potuto fare queste ricerche con tutte le esigenze della scienza sperimentale, ho però seguito per quasi trent'anni con studiosa attenzione i discorsi dei nostri grandi oratori parlamentari dal Brofferio al Minghetti, dal Cordova al Mancini e al Cavallotti. Or bene mi pare di aver trovato che l'eloquenza non decresce, ma cresce con gli anni, acquistando soprattutto alcuni preziosi caratteri, che riassumerei con le parole di una virilità maggiore.
Nel giovane la parola è più calda, più prorompente: se volete, più affascinante, perché ispirata da più calde passioni, perché in essa sentite il grido della battaglia e l'impeto della lotta. E più adatta ai tumulti dei meeeting e alla conquista del popolo nelle piazze o alla conquista delle coscienze sotto le volte del tempio.
Nel vecchio invece vi è meno calore, ma maggior potenza di idee, e l'arte più sottile e più ingegnosa nasconde mirabilmente i tranelli dei sofismi e le trappole dei sillogismi. L'eloquenza del vecchio conquista e tien salda la conquista. La prima è una carica di cavalleria o un attacco di bersaglieri; la seconda è un quadrato di fanteria, che non si rompe nella difesa, o è l'artiglieria che abbatte gli eserciti e rende sicura e infallibile la vittoria. Ed è perciò che nei parlamenti è la forma di eloquenza che vince ogni altra; anche quando la voce è più fioca, e la parola meno battagliera e appassionata.
Sul pulpito e in piazza vorrei veder sempre un oratore giovane, sulla cattedra e soprattutto nel parlamento vorrei sempre ammirare oratori canuti.

Se dovessi quindi riassumere la fisionomia caratteristica del pensiero nell'ultima età della vita, direi che il vecchio ha un cervello potentemente stereoscopico, mentre il giovane ha un cervello creatore. In questo l'agilità e la fecondità, in quello la sicurezza e la tenacità. Nessuno primo, nessuno secondo; entrambi organi diversi, che adempiono funzioni distinte in quel grande organismo, che è una società umana.
Quando i progressi dell'igiene faranno campare per ottant'anni almeno tutti i nati sotto il sole; l'umana famiglia sarà più felice, più ordinata, più morale, più intellettuale; per molte ragioni, ma per questa principalissima, che con una popolazione equale avrà un numero molto maggiore di vecchi.
Capitolo Quinto: I due pèchés mignons della vecchiaia


Le plaisir de la table est detous les àges, de toutes les conditions, de tous les pays ed de tous les jours; il peut s'associer à tous les autres plaisirs et reste le dernier pour nous consoler de leur perte.

BRILLAT-SAVARIN

La gola

Da buon cristiano aborro i peccati mortali e credo di non averne mai commessi in mia vita, così come spero di non commetterne mai in avvenire; ma adoro i peccati veniali, che sono come chi dicesse il sole della vita, e senza i quali i più tra gli uomini rinuncerebbero a far la loro comparsa sul nostro pianeta.
Prima però di dirvi quali e quanti sieno questi peccati veniali, intendiamoci bene sui peccati mortali, onde non avvenga confusione.
I miei peccati mortali non sono quelli della Chiesa apostolica romana, ma di un'altra chiesa più grande e soprattutto più alta; in cui entrano cristiani e ebrei, mussulmani e buddisti, purché prima di entrarvi si sieno levate le scarpe della superstizione e abbiano adottato il dogma del non far soffrire anima viva.
Dunque i miei peccati mortali sono questi:
1. Far soffrire.
2. Esser superbi.
3. Esser vili.
4. Non amare la patria.
5. Non credere nell'ideale.
6. Non credere nel progresso.
7. Mentire.
Quanto ai peccati veniali, non ve li posso dir tutti, perché da soli farebbero un volume e ve li dirò un'altra volta.
Essi sono i nei, che messi in buon posto e su una bella faccia, la rendono bellissima. Sono i chiaroscuri del paesaggio, sono l'amaro del caffè e il moscatello dell'uva, sono il sale della sapienza e la grazia della bontà; sono sale ed aroma; sono il vino del desinare; sono insomma tutto ciò che v'ha di meglio nella vita.
So anch'io che senza di essi l'uomo sarebbe perfetto; ma allora non sarebbe più un uomo, ma un angelo, e fino ad ora nella vita breve vissuta dall'umanità, siamo ancora lontani lontani dal metter le ali.
Gli angeli poi hanno un grave difetto, quello di volar via, quando vogliamo acchiapparli. Ne nasce qualcuno anche fra gli uomini e specialmente fra le donne; ma quaggiù sulla terra, quando camminano tra noi, si sporcano i piedi, perché c'è troppo fango, e ne hanno un gran schifo e volan via: volan lontano, poggiando per poco sulle vette illibate e candide del Monte Bianco o dell'Everest e là li vediamo librar le ali d'argento per pochi istanti e dopo essersi scosso il fango terestre dai piedi, se ne vanno forse in un pianeta migliore dove non c'è fango.
Per ora almeno, il sole ha le sue macchie e l'uomo buono e bello ha i suoi peccati veniali, che lo aiutano a tollerar la vita e talvolta bastano a farla felice.
Fra essi ve ne son due, prediletti dalla vecchiaia, e sono la gola e l'avarizia; e noi li studieremo l'uno dopo l'altro, perché il nominarli non basta; perché i peccati veniali sono come le grandi virtù, ed hanno forma e indole diversa; tanto che possono essere antipatici o simpaticissimi, possono far del male e far del bene.

La gola è larga dispensatrice di gioie grandi e piccine al vecchio; anzi egli gode di questi piaceri più del fanciullo, che è distratto, più del giovane troppo occupato dei suoi amori, più dell'adulto che deve dedicare il suo tempo a farsi un posto al sole.
Tutti i sensi impallidiscono nel vecchio; meno il gusto, che in lui si affina anzi con l'esperienza e con l'attenzione.
La gola sotto alcuni rapporti è meglio dell'amore; primissima fra le voluttà, arciprimissima fra i bisogni umani.
Amore e gola hanno un prima, un mentre e un poi; ma quanto diversi questi prima, questi mentre, questi poi!
Nell'amore il prima è spesso un prurito che fa male o un uragano che schianta gli alberi e rovina le messi. Il mentre è dolcissimo, ma ahimè, dura troppo poco. Non dirò con l'epicurea francese, che cela ne dure que le temps d 'avaler un æuf, ma dobbiamo pur confessare, che il mentre si misura non a giorni, né a ore; ma con l'orologio a minuti secondi.
Il poi, poi, è ora acido, ora amaro: nei casi più fortunati è un languore, cioé una forma di stanchezza. Nei casi più disgraziati, che pur son frequenti, è un dolore o un pentimento o l'uno e l'altro insieme.
Nella gola invece delizioso è il prima, più delizioso il mentre, deliziosissimo il poi.

Il vecchio, quando si sveglia al mattino, fra i crepuscoli che gli aprono le porte della giornata, vede sempre per prima cosa la sua colazione e il suo pranzo.
È d'inverno, e pensa ad una lepre in salmì o ad una beccaccia lardellata di prosciutto, dorata dal grasso di uno spiedo sapiente e adagiata sopra una fetta di pane aromatico, croccante, profumatissimo.
È d'estate, e pensa ad una pesca morbida e vellutata come la rosea guancia d'una bella inglese o come il roseo e grasso cuscino d'una giovane olandese. Vede i denti e le labbra, che s'affondano in quella benedizione di Dio e sente il succo nettareo, che inonda la bocca e sgocciola per ogni lato.
Ma né una beccaccia, né una lepre, né una pesca bastano al pranzo, e il vecchio epicureo studia gli accordi e le melodie delle note diverse, che dovranno formare la musica della colazione e quella del pranzo.
Ieri il desinare fu troppo leggero. Una zuppa, una sogliola fritta e un beccaccino gli hanno lasciato il corpo troppo leggero e il ventricolo non sazio. Converrà che oggi il pranzo sia un po' più serio e converrà pensare a un gigot di montone o a una lingua di Zurigo adagiata in un letto di cavolini di Bruxelles. Degli ovoli ben pepati alla gratella potranno servire di fritto.
Ma per prepararsi degnamente ad assaporare e a digerire questo pranzo forse un po' pesante, converrà che la colazione sia più leggera del solito, benché l'appetito sia impertinente e esigente.
E qui una nuova e lunga meditazione su questa prima parte della giornata. Una sogliola no, perché l'ho mangiata ieri. Mangerò una piccola frittata al prosciutto e una costoletta di vitello ai ferri. — Finalmente colazione e pranzo sono fissati e il piano di battaglia è ottimo. Unità nella varietà; sapori diversi che fanno melodia di note deliziose.
Il vecchio goloso si veste, prende il suo caffè e va egli stesso al mercato, perché non lascia mai al cuoco l'onore e il compito difficile di scegliere il pesce, il selvaggiume e la frutta.
Gira e rigira; tutto guarda e tutto pesa con la bilancia dell'occhio, del naso e del tasto. Salutato da tutti i rivenditori, che lo conoscono come un antico e prezioso cliente, non si lascia sedurre mai né dai sorrisi più amorevoli, né dalle offerte più insinuanti; ma da solo e senza riguardi giudica e manda.
Ha scoperto un pesce spada, non apprezzato né conosciuto nella città dove vive e che è giunto per caso. Egli ne conosce tutto il valore e se l'ha comperato.
Ha trovato una pernice paffutella proprio nel punto giusto di maturità e l'ha comperata.
Ha scoperto da un ortolano un piccolo cestino di funghi dormienti. Son cresciuti sotto le nevi dell'Appennino e nel freddo silenzio dell'inverno hanno maturato i più delicati aromi del monte e degli abeti.
Ah quanta ignoranza nel volgo dei cuochi e delle cuoche!
Il buon vecchio è andato un po' tardi al mercato; eppure gli hanno lasciato intatto quel tesoretto. Li farà friggere e gli parrà di mangiare la più delicata e squisita cervella.
Dal fruttaiolo ha preso due pesche sole, scelte fra cinquanta. Una pera burrona, delle noci fresche, del ribes e una banana. Quei frutti faranno un bel quadretto, colorito e profumato e quei grappolini di rubino messi fra le pesche, la pera e la banana sembrerà che ridano, come labbruzze di bambini festanti.
Si può metter tanta poesia e tanta estetica nei preparativi di una colazione e di un pranzo, quanto nel comporre una sinfonia, una romanza o un inno.
E sinfonie e romanze ed inni cantano ad una tavola ben apparecchiata. Cantano le lodi alla natura proteiforme e creatrice, che con la lenta pazienza dei forti prepara all'uomo i succhi profumati, le carni tenerelle e le polpe voluttuose, che attraverso al tempio del palato danno a noi nuovo sangue, nuovo calore e nuova vita.
La tavola è un'ara, su cui la natura offre all'uomo il più giocondo, il più prezioso tributo, e in cui si compie la più sublime trasformazione delle forze.

Il mentre è più delizioso del prima. Questo è la speranza: quello è la fede.
Il giovane che col respiro soffocato, col cuore palpitante, con le mani fredde aspetta la donna che ama, se può parlare dice a se stesso: Venga quest'ora e poi ch'io muoia! Uno di questi minuti e poi la morte!
Il vecchio che si siede a tavola, non ha il respiro affannoso, né il cuore turbato, né le mani fredde; ma distende il tovagliolo sulle ginocchia con studiata lentezza, e tirando su dai precordi un profondo sospiro, si guarda intorno, aspirando tutti gli odori presenti e futuri, che vengono e verranno dalla cucina.
Quegli odori son buoni, son gravidi di promesse, e il vecchio si stropiccia le mani davanti alla zuppa profumata, che deve aprire le porte a tutte le voluttà gastronomiche, che con ordine sapiente si succederanno le une alle altre.
Quelle voluttà or profonde, or delicate, ora intense, ora vaporose si succedono è come onde tranquille di un mare allegro. Non uragani, né lampi, né fulmini; ma ondulazioni soavi e molli, che scacciano un piacere, per darcene uno maggiore.
Nell'amore il rapimento, nella gola il possesso. Nell'amore siam foglie vibranti di voluttà, ma trasportate da una bufera che è più forte di noi. Gaudenti, inebriati; ma posseduti. Nella gola, padroni noi stessi del nostro piacere, che governiamo a nostro capriccio, col timone in mano; sempre padroni del dove, del come, del quando.
Nell'amore, felici, ma schiavi di una potenza troppo potente; nella gola, felici e padroni della nostra felicità. Nell'amore, il troppo, che ci rovescia a terra, che ci capovolge, che fa naufragare il nostro Io nell'onda tumultuosa e tiranna. Nella gola, il molto, ma un molto tutto nostro e che possiamo far riposare a nostro capriccio.
Come è deliziosa quella nota eterea di un sorso di dorato Sauterne, che ci lava bocca e lingua dal saporoso gusto di una rosea trota. Come è austero quell'amaro di un Bourgogne premier cru, che si marita col succo nettareo di un petto di beccaccia! E quei tartufi che alternano il loro profumo, che sembra l'etere della terra, con le carni soavi di un grasso tacchino; e quel pasticcio di Strasburgo, che si discioglie nella nostra bocca, come la carezza innamorata di una donna libertina; e tutta quell'infinità di sapori odorosi e di saporosi odori, che fanno del nostro palato una serra calda piena di fiori inebrianti; e quelle estasi profonde, senza deliri e senza stanchezze, non sono forse tutto un poema?
Di certo, il vecchio fortunato che può mangiar bene e senza rimorsi, se pranza solo tiene aperto il libro immortale del Brillat-Savarin dove si legge:

Il gusto, così come la natura ce l'ha dato, è ancora quello dei nostri sensi, che ben considerato, ci procura più godimenti degli altri:
1. Perché il piacere di mangiare è il solo, che goduto con moderazione, non sia seguito dalla stanchezza.
2. Perché è di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le condizioni.
3. Perché si gode necessariamente almeno una volta al giorno e può ripetersi, senza inconvenienti, due o tre volte al giorno.
4. Perché può associarsi a tutti gli altri e può anche consolarci della loro assenza.
5. Perché le impressioni che ci dà sono in una volta sola più durevoli e più ubbidienti alla nostra volontà.
6. Finalmente, perché mangiando noi proviamo un certo benessere indefinibile e particolare, che sgorga dalla coscienza istintiva; perché mangiando noi ripariamo alle nostre perdite e prolunghiamo la nostra esistenza.

Il nostro vecchio non si vergogna di esser goloso. Quando l'arte asseconda la natura e ci procura piaceri innocenti, deve anzi renderci fieri di esser uomini, e di avere col nostro intelletto allargato tutte le frontiere del sensibile e del soprasensibile.
Egli ha letto e riletto le pagine dedicate dal Brillat-Savarin al fagiano e vuole regalarle ai lettori italiani (e sono molti) che non le conoscono e non le hanno degnamente apprezzate e assaporate:

Il fagiano è un enigma la cui soluzione è stata rivelata soltanto agl'iniziati: essi soli possono assaporarne tutta la bontà.
Ogni sostanza ha il proprio apogeo di mangiabilità: alcune vi sono già arrivate prima del loro intero sviluppo, come i capperi, gli asparagi, le pernici grige, i piccioni al cucchiaio, ecc.; altre vi arrivano nel momento in cui hanno tutta la perfezione d'esistenza che è loro destinata, come i poponi, la maggior parte delle frutta, il montone, il bue, il capriolo, le pernici rosse; altre finalmente quando cominciano a decomporsi, come le nespole, la beccaccia e soprattutto il fagiano.
Quest'ultimo uccello, se si mangia nei tre giorni dopo la sua morte, non ha nulla di speciale. Non è né delicato come una pollastra, né profumato come una quaglia.
Preso al momento giusto è una carne tenera, sublime e gustosissima, perché sa di pollastra e di selvaggina insieme.
Il momento così desiderabile è quello in cui il fagiano comincia a decomporsi: allora il suo aroma si sviluppa e si unisce a un olio che per venir fuori aveva bisogno di un po' di fermentazione, come l'olio del caffè, che si ottiene solo dopo l'abbrustolimento.
Quel momento si manifesta ai sensi dei profani con un leggero odore e col mutamento di colore del ventre dell'uccello, ma gl'ispirati lo indovinano per una specie d'istinto che agisce in molte occasioni, che per esempio suggerisce ad un abile rosticciere di decidere alla prima occhiata se un uccello dev'esser tolto dallo spiedo o se invece deve fare qualche altro giro.
Quando il fagiano è arrivato a quel punto, bisogna spennarlo, non prima, e dev'essere accuratamente lardellato scegliendo il lardo più fresco e più sodo.
Non è inutile l'avvertimento di non spennare il fagiano troppo presto: esperienze molto ben fatte hanno insegnato che i fagiani conservati con le penne sono assai più profumati che quelli rimasti a lungo nudi, sia che il contatto all'aria neutralizzi parte dell'aroma, sia che parte del sugo destinato a nutrire le penne venga riassorbito e serva a far più sostanziosa la carne.
L'uccello così preparato dev'essere vestito: e si fa così.
Prendete due beccacce, disossatele e vuotatele in modo che ne vengano due parti: una di carne, l'altra d'interiora e fegatini.
Poi prendete la carne e fatene un ripieno tritandola con midollo di manzo cotto a vapore, un po' di lardo sminuzzato, pepe, sale, erbe odorose e tanti tartufi quanti ne occorrono per riempire l'interno dell'animale.
Avrete cura di fissare questo ripieno in modo che non si spanda al di fuori, cosa un po' difficile se l'uccello è avanzato. Però ci si arriva con vari mezzi, e tra gli altri, tagliando una crosta di pane che si attacca con un nastro e che fa da otturatore.
Preparate una fetta di pane che superi di due pollici da ogni lato le dimensioni del fagiano disteso per lungo: poi prendete i fegatini e le interiora delle beccacce e pestatele con due grossi tartufi, un'acciuga, un po' di lardo sminuzzato e una quantità bastante di buon burro fresco.
Stendete ugualmente tale pasta sulla fetta di pane e collocate questa sotto il fagiano in modo che s'impregni bene di tutto il sugo che ne gocciola mentre si arrostisce.
Quando il fagiano è cotto, servitelo con grazia sulla fetta di pane, circondatelo di arance amare e abbiate fiducia nell'effetto.
Questa pietanza di nobile sapore dev'essere inaffiata di preferenza col vino dell'alta Borgogna; ho ricavato tale verità da una serie di osservazioni le quali mi sono costate più fatica che tutta una tavola di logaritmi.
Un fagiano così preparato sarebbe degno di comparire sulla tavola degli angeli, se essi camminassero ancora per il mondo come ai tempi di Lot.
Ma che dico? L'esperienza è stata già fatta. Un fagiano vestito fu preparato, sotto i miei occhi, dal bravo cuoco Picard, nel castello della Grange, ove abita la mia bell'amica signora de Ville-Plaine, e fu portato in tavola dal maggiordomo Louis, che incedeva con passo solenne. Fu esaminato con lo stesso interesse che se fosse stato un cappello della signora Herbault, fu assaporato attentamente, e durante questo sapiente lavoro gli occhi delle signore brillavano come stelle, le loro umide labbra sembravano di corallo e le fisionomie erano estatiche.
Feci di più: ne presentai uno simile a una riunione di magistrati della Corte di Cassazione che sanno come occorra qualche volta deporre la toga senatoria, e ad essi dimostrai facilmente che la buona tavola è un giusto compenso delle noie giudiziarie. Dopo un conveniente esame, il decano scandì, con voce grave, la parola: “Eccellente!”. Tutte le teste si chinarono in segno di assenso e la sentenza fu approvata all'unanimità.
Durante il processo io avevo osservato che i nasi di quegl'illustrissimi erano agitati da movimenti molto visibili di olfatto, che le auguste fronti dimostravano una tranquilla serenità e che le veridiche bocche avevano un che di giubilante che arieggiava ad un mezzo sorriso.
Del resto, tali effetti meravigliosi sono naturali. Cucinato secondo la ricetta che abbiamo esposta, il fagiano, già squisito per conto suo, s'imbeve di fuori del saporito grasso derivato dal lardo che si carbonizza, s'impregna di dentro dei fluidi odorosi che emanano dalla beccaccia e dal tartufo. La fetta di pane già così riccamente guarnita riceve ancora i sughi triplicemente combinati sgorganti dall'uccello che si arrostisce.
Così di tutte le buone cose che si sono riunite, neppure la più piccola particella sfugge all'assaporamento: e data la squisitezza di questo piatto, io lo credo degno delle più nobili mense.

Chi ha scritto queste pagine condite di così fino epicureismo, per esse sole meriterebbe di passare all'immortalità; ma la sua squisita ghiottornia non gli impedì di essere uno degli uomini più rimarchevoli del suo tempo (1755-1826). Fu deputato agli Stati Generali; poi all'Assemblea Costituente, Consigliere di Cassazione e quel che più importa magistrato liberale e coraggioso; nemico d'ogni violenza, venisse poi dall'alto o dal basso. Queste virtù, rare in ogni tempo, gli valsero l'esiglio. A Nuova York visse dando lezioni di francese e suonando nei teatri. Ritornato in patria fu nominato segretario dello Stato Maggiore dell'armata francese in Germania, poi commissario del governo presso il tribunale di Seine et Oise e dopo il 18 brumaio passò alla Corte di Cassazione, dove visse gli ultimi venticinque anni della sua vita.
Quanto alla sua virtù di scrittore basti citare ciò che lui scrisse il più grande forse dei prosatori francesi, il Balzac:

A partire dal XVI secolo, se si fa eccezione per La Bruyère e La Rochefoucauld nessun prosatore ha saputo conferire alla frase francese un rilievo così vigoroso; ma ciò che distingue soprattutto l'opera di Brillat è il comico al di sotto della bonomia, carattere peculiare della letteratura francese della grande epoca che iniziò con la venuta di Caterina de' Medici in Francia e si chiuse con la sua morte. Così la Fisiologia del gusto piace alla seconda lettura anche più che alla prima.

Eppure vi sono molti idioti che credono la gola un peccato mortale e degno solo di gente volgare e di tipo molto basso. Essi forse non hanno mai letto la sentenza del gran cuoco Brillat-Savarin:
Les animaux se repaissent, l'homme mange, l'homme d'esprit seul sait manger.

Dove però la gola stravince nelle sue dolcezze l'amore è nel poi.
Il vecchio che ha pranzato bene, che ha nascosto le fatiche della digestione con una tazza ardente di ottimo caffè, si siede o meglio si sdraia, abbandonandosi alle infinite delizie del chilo. Se parla, risponde a mezz'aria e come in sogno e adagiando tutte le membra nelle profondità voluttuose di una poltrona o di un'agrippina, cade in estasi. Estasi di compiacenza: compiacenza di aver adempito molto bene ad uno dei doveri massimi dell'uomo animale e di aver goduto uno dei più grandi piaceri dell'uomo intelligente.
E i piaceri per lui hanno sempre il carattere di un frutto proibito; ciò che li acuisce, li affina e direi li spiritualizza.
Per mangiar molto, per mangiar bene com'egli ha fatto, ha dovuto fare i conti con la gotta e col ventricolo non più vigoroso come a vent'anni. Egli ha dovuto ricordare i consigli del medico e i precetti dei libri d'igiene studiati da lui con largo benefizio d'inventario. Nel piacere goduto c'è un po' di birichineria. Egli l'ha fatta in barba all'igiene e alla Facoltà di medicina, e la facile espansione del suo ventricolo e il languido tepore che lo innonda per ogni parte gli danno la beata sicurezza, che anche questa volta avrà saputo canzonare Esculapio e i suoi sacerdoti.
Fra un dormiveglia saporoso e soporoso e un ricordo di altri pranzi egualmente fortunati, gli passano dinanzi tutti i sapori e gli odori della mensa abbandonata da poco.
Ah quel Sauterne come gli ha imbalsamato le labbra, la lingua, il palato! Come ha salutato festosamente l'ultimo profumo di quella trota tenerella, là in fondo alla bocca; proprio sulle frontiere del sensibile e dell'incosciente. Pareva del Chateâu-Yquem!
E quell'ala dorata di fagiano, quanti aromi nettarei aveva assorbito! Aveva in sé i profumi del tartufo e della beccaccia, che gli avevan tenuto compagnia nel sapientissimo laboratorio di un'aulica cucina!
Quanti ricordi di voluttà recenti, quanti progetti giocondi di peccati futuri!
Purché non venga la gotta, purché non faccia un'indigestione...
Ma l'ala del sonno si posa sulle palpebre del vecchio beato, confondendogli sapori, odori e paure.
E tutta quella beatitudine goduta senza tradire l'amico, senza prostituire il corpo alla compera della voluttà; una festa senza rimorsi, una vittoria senza morti e senza feriti, che si potrà rinnovare presto, fors'anche domani...
È in quell'ora di chilo che forse il mio vecchio felice dà ragione al Brillat-Savarin, che faceva di Gasterea una decima musa, quella che presiede ai piaceri del gusto e ch'egli descrive sotto la figura di una fanciulla, dai capelli neri, dagli occhi profondamente azzurri, dalle forme piene di grazia, con una cintura del color del fuoco. E aggiunge che “elle est belle comme Vénus; mais elle est surtout souverainement jolie “.
Capitolo Sesto: L’avarizia nel vecchio


Cum cuncta vitia in cene senescunt,
sola avaritia iuvenescit.

SANTI PADRI


Quando ero giovane, ho dato; da vecchio domando.
PROVERBIO DEL DARDISTAN

La patologica e la fisiologica

Da Orazio al Raiberti, che lo parafrasò stupendamente in dialetto milanese, satirici e moralisti furon tutti d'accordo nel flagellare con lo scudiscio della satira e con lo sdegno della morale oltraggiata l'avarizia. Non vi fu un aggettivo vituperevole che bastasse a ferirla, né frase sanguinosa per offenderla.
A volta a volta peccato mortale davanti al confessionario e vizio immondo al tribunale della pubblica opinione; qualcosa di vile, di abietto, di sudicio, di paradossale. E se volete persuadervi del concetto etico e sociologico, in cui i più tengono l'avarizia, dovete studiare la mimica del nostro volto, quando accusiamo un tale di avarizia.
La parola è l'ombra del pensiero e il gesto mimico, che accompagna una parola, che sia giudizio di qualcuno o di qualche cosa, la rinforza e gli aggiunge un valore psicologico massimo. È un terreno sfuggito finora all'osservatore e che è sfuggito anche a me, che pure ho dedicato tutto un volume allo studio della fisonomia e della mimica. Propongo questa miniera vergine ai posteri: La mimica degli aggettivi.
Eccone le prime linee:
Voi dite: Che libertino è Tizio!
E intanto i vostri occhi luccicano e le labbra si baciano l'un l'altro e poi anche la lingua bacia la vostra bocca: tutta una mimica erotica e libertina.
Caio è troppo superbo!
E il nostro capo si erige alto sulle spalle e le gote si gonfiano e ne esce il soffio pieno e rumoroso del millantatore. Sempronio è un gran furbo!
E voi ghignate con un occhio e stirate all'insù un angolo della bocca, come se esprimeste la diffidenza e suonaste la campana dell'allarme.
E infine, se voi date dell'avaro a Martino, strizzate gli occhi, arricciate il naso e sollevate le labbra, come se sentiste un puzzo; il che vuol dire, che al cospetto degli uomini l'avarizia è fra la cose vituperevoli e ributtanti.
Si può dire libertino, superbo, furbo, avaro, in mille lingue diverse e quindi con mille diversi suoni; ma il gesto che accompagnerà questi aggettivi sarà quasi sempre eguale, rappresentando così quel linguaggio universale che è la mimica, la grande fratellanza umana.
E perché il consenso di tutti i tempi e la mimica di tutte le faccie umane è andata d'accordo nel flagellare l'avarizia? Perché fu posta fra i vizi immondi, fra le più basse passioni?
Perché l'avarizia offende il nostro egoismo, che perdona cento volte più facilmente i peccati d'amore, che anche a noi possono portare o promettere qualche zuccherino.
Perché il giurì, che è l'inconscia e poco onorevole denudazione della natura umana, condanna il ladro e anche l'assassino, che ha ucciso l'amante della moglie.
L'avaro è per noi un ladro, che ruba alla società umana il tributo del denaro, che dovrebbe entrare nel grand'alveo della circolazione, fecondando il campo di tutti; e quindi anche il nostro. Con la solita ipocrisia, però, che fa da vernice a tutti i nostri giudizi, ai nostri usi, alle nostre istituzioni; vituperando l'avarizia abbiamo cura di dire, che questo vizio è una mostruosità, perché priva l'uomo di tutti i comodi e di tutte le gioie che gli vengono dal denaro. L'Io nostro, il piccolo, è molto nascosto o si confonde con l'Io sociale, l'Io grande, di cui siamo tutti, consapevoli o inconsci, difensori e avvocati.
Non crediate però ch'io voglia difendere l'avarizia e da peccato mortale redimerlo e sollevarlo a virtù.
No, e poi no: voglio soltanto fare con voi un po' di analisi fisiologica di questa forma psichica, di cui distinguo subito due forme molto distinte e diverse.

Vi è l'avarizia patologica e la fisiologica. La prima è un vizio, è una malattia psichica e merita tutte le contumelie dei satirici e dei moralisti. La seconda è una mezza virtù, è un pèché mignon.
L'avaro patologico è un uomo che adora l'idolo e non il Dio, e che è innamorato del denaro, come rappresentante della massima forza e del piacere; lo ama, lo difende; lo palpa, lo accarezza e se ne fa adoratore assiduo e ardente.
Per lui il denaro non è più lo strumento dello scambio e del commercio, non è più il rappresentante di tutte le delizie della vita; ma è un Dio esistente di per sé e che è bello, perchè potente e grande, perché tutto abbraccia e sottomette. E così come il poligamo libertino ad ogni unità femminea, che aggiunge al proprio harem, gode una nuova gioia, anche quando questa è potenziale soltanto e non attuale; così l'avaro accresce le sue compiacenze, quanto più arrotonda i suoi capitali e ingrandisce le sue casse.
E siccome ogni spesa assottiglia il suo tesoro, così tormenta se stesso e la propria fantasia per ridurre al minimo l'uscita; privandosi d'ogni festa, d'ogni larghezza di lusso, d'ogni tripudio di allegrezza. E soppresso il superfluo, lima anche il bilancio del necessario; ogni giorno, ora contrastandogli il terreno e godendo di una sovrumana voluttà nel sagrifizio che si impone; in ciò poco diverso dell'amore, dell'amor materno, di tutte le grandi passioni umane, che nel sagrifizio trovano la sorgente più feconda di gioie.
Suo idolo, suo Dio il denaro, e ad esso l'avaro sacrifica ogni altra gioia, felice di soffrire per l'amor suo, che per lui rappresenta tutte le energie, tutte le possibilità; la soddisfazione di tutti i desideri.
La formula psichica dell'avaro è una equazione semplicissima, chiara come 1+1=2.
Tutti i pensieri, tutti gli affetti, tutte le energie sacrificate a un Dio solo, il denaro. Per lui vivere, per lui godere, per lui soffrire. E davanti a sé una fame che non si sazia mai, una sete che non si estingue; l'infinito palpabile; un ideale insomma, che basta alla felicità umana perché non muore che con l'ultimo respiro; perché non conosce disinganni, perché non ha bisogno di alcuno.
Immaginate voi la gioia morbosa, intensa di quel marchese che avendo scoperto che nei fornelli della propria cucina, insieme alla cenere, ardevano molti carboncini che andavan perduti diede l'ordine perché la cenere fosse stacciata, e i carboncini fossero messi a parte per servire a cuocere il caffè del mattino?
Immaginate voi l'allegrezza di quell'altro, che raccogliendo la ceralacca delle lettere raccomandate, dopo pochi mesi poteva darla al cartolaio per averne un paio di cannuccie di ceralacca?
Pensate voi alla compiacenza di quell'illustre fisiologo, che ad un pranzo dato in suo onore, allo stappare dello champagne, andava sotto la tavola per raccogliere i tappi, che gli potevan servire per le sue esperienze; risparmiando qualche soldo per comprarne di nuovi?
E faccio punto, perché se volessi numerare tutte le fantasiose invenzioni degli avari per risparmiare una lira, un soldo, anche un centesimo, non la finirei più.
Sì, l'avaro giunge ad essere crudele e puerile per appagare la propria passione. Patisce la fame e affronta il ridicolo; il colmo della pazzia e dell'eroismo in omaggio di una passione. Vincer la fame, il più formidabile e il più animalesco dei nostri bisogni; affrontare il ridicolo, che piega anche gli atleti della volontà, che fa paura anche agli eroi!
Vi sono forme così feroci, così crudeli dell'avarizia, che toccano le frontiere orrende del sadismo, tanto che vorrei farne una specie, che raccomando agli studiosi della patologia psichica e che chiamerei l'avarizia sadica.
Fin qui però questa passione (che davvero per la sua forza e per il suo andamento merita questo nome) non s'aggira che nell'ambito di un individuo. È un tumore morale, che cresciuto in un organismo, sacrifica organi e funzioni a se stesso, e di se stesso pascendo, vive e muore nella frontiera dell'Io. È Origene che si mutila per non peccare.
Ma l'avaro raramente può essere uomo sciolto da ogni vincolo di famiglia, da ogni dovere sociale. Egli può aver una moglie, dei figli, dei vecchi genitori; e allora al suo altare non bastano più i suoi tributi personali; ma sacrifica anche i più santi affetti, i doveri più sacri. Non contento di patire egli stesso, fa patire anche gli altri. Non vi ha voce di dolore o lamento che lo commuova. Quella stessa fantasia ingegnosa, che gli aveva fatto trovare i carboncini nella cenere dei suoi fornelli, gli viene in aiuto per trovare che anche i suoi figli possono privarsi di ciò che a lui non è necessario, e di transazione di coscienza in sofismi scivola poco a poco nella più crudele, nella più feroce violazione dei doveri di padre, di marito, di fratello, di uomo sociale.
È il ladro, che dalle volgari arti del furto, passa alle glorie più alte dell'assassinio. È il passaggio brusco e violento dal carcere correzionale alla galera e alla forca. È la passione suicida e omicida, che non conosce più frontiere al possibile, né ardimenti alla violenza. È il sadismo dell'avarizia spinto al colmo della patologia più vile e più ributtante.

Ma all'infuori di questa avarizia, che appartiene alla patologia, ve n'ha un'altra fisiologica, che è una delle tante armi con cui il vecchio deve difendersi.
È un'economia un po' esagerata del denaro e che va insieme a tutte le altre economie, che egli è costretto a fare. È una riduzione del bilancio passivo, è una forma di prudenza e di previdenza.
Il giovane può essere prodigo, l'adulto può esser largo; il vecchio deve essere economo e dall'economia all'avarizia non v'ha che un passo.
Il giovane può osare, può rifare la propria fortuna, può godere dell'altalena vertiginosa, che volta a volta lo innalza nelle beate sfere della ricchezza per piombarlo subito dopo nella miseria. Il giovane non cammina, ma salta e il bastone è per lui un gingillo di moda, ma non mai una terza gamba, come è per il vecchio.
Per questo, i salti sono pericolosi e il bastone è un aiuto. L'economia è per lui la terza gamba.
Ammetto benissimo, che si può esser vecchi senz'avarizia; ma io parlo della grande maggioranza degli uomini.
Questi con la lunga vita hanno imparato a diffidare della generosità del prossimo e soprattutto, se hanno dignità d'uomo, sdegnano d'ispirare la compassione e di stender la mano; fosse pure alla moglie o ai figliuoli.
Il vecchio sano nel corpo e nel pensiero accetta l'affetto, la tenerezza, le carezze più delicate e i più delicati accorgimenti del cuore; ma non vuole ispirar mai la compassione, che lo diminuisce e lo avvilisce. L'indipendenza economica è la sua dignità d'uomo, quella che gli fa tener alto il capo, malgrado tutte le debolezze, che lo insidiano e lo piegano.
E all'economia egli ci pensa tanto da scavalcare d'un tantino le frontiere, che lo separano dall'avarizia.
È un'avarizia benigna, carina, ch'egli esercita non per sé solo, ma per i suoi cari; dacché egli vuole essere ricordato con riconoscenza, anche quando egli non sarà più di questo mondo. Più d'una volta il suo gruzzolo di economie sarà disperso da eredi scialacquatori, ma ciò non gli importa. Scomparso dai vivi non sentirà né l'ingratitudine, né l'obblio.
Ho conosciuto un vecchio che con il lavoro fortunato era riuscito a farsi milionario e che negli ultimi anni della sua vita era divenuto cieco. Orbene, sua massima gioia era quella di rinchiudersi nel suo studio e di numerare i biglietti di banca, che aveva addensato nello scrigno. Li conosceva tutti al tasto e li ordinava secondo il loro valore e li palpava amorosamente; alternando quelle carezze con altre date ai marenghi e alle svariate monete d'oro d'ogni conio e d'ogni paese e che faceva risuonare al suo orecchio gaiamente, lungamente.
Era un uomo d'ingegno, e quel suo spasso, che bastava a farlo felice, non era un gioco puerile; ma una tacita e intensa adorazione di uno fra i massimi fattori della civiltà, del progresso; una delle fonti più feconde d'ogni opera buona (checché ne dicano i socialisti calunniatori del capitale).
Egli rideva spesso tra sé e sé, palpando quei biglietti e facendo saltellare le monete.
E perché rideva?
Rideva pensando a tutte le trasformazioni, di cui eran capaci quei fogli e quei dischetti d'oro.
Ecco qui; questo foglio da mille potrebbe comprare la virtù di dieci ragazze almeno o corrompere l'onestà di un impiegato, di un doganiere, di un giudice.
Quanto male potrebbe fare questo foglio! — Ma viceversa potrebbe salvare dal suicidio un poveraccio, a cui scade una cambiale; potrebbe per un anno intiero difender dalla fame una famigliuola; potrebbe permettere a un giovane bravo e povero di fare gli studi ad una università.
E quest'altra povera monetina da una lira, nella sua piccolezza quante cose può fare! Tra le altre, per esempio, sminuzzata in venti soldi procacciare venti sorrisi da venti conduttori, quando io dessi loro un soldo di mancia. E m'avrei qualcosa di più d'un sorriso. Anche una scappellata! — Un sorriso e un saluto per un soldo! Ma quel soldo è un sigaro non previsto nel bilancio della giornata, e alla fin dei conti, se la gratitudine è maggiore del dono, ciò non prova che l'uomo sia una creatura vile, ma prova soltanto che per il povero conduttore un sigaro può dare un gran piacere.
Se la Venere medicea potesse narrarci tutte le voluttà de' sensi e del pensiero, tutte le opere d'arte che ha risvegliato nei mille e mille uomini d'ogni tempo e d'ogni paese, che l'hanno contemplata; e se tutti questi tesori estetici e voluttuosi potessero tradursi in una cifra, che ne significasse il valore, si troverebbe di certo, che quella statua greca vale almeno quanti diamanti pesa.
E con un gran salto, scendendo al denaro, anche la sua contemplazione ha risvegliato pensieri e gioie e opere, che figurano nel bilancio del bene nel gran libro dell'umana famiglia.
Nell'avarizia tutti hanno veduto la forma patologica, perché vi hanno scorto la poesia e le idealità, che possono esserle compagne.
Non è soltanto in amore, che il prima è spesso la parte migliore; ma in quasi tutti i tesori concessi all'uomo, la potenzialità avanza l'attualità, se mi permettete (per una volta sola) di prendere in prestito le mie parole alla metafisica.
Spendere il denaro per soddisfare un desiderio fu, è, e sarà sempre una delle maggiori compiacenze.
Ma il contemplare il denaro, pensando a tutti quanti i mille desideri che potrebbe soddisfare, a tutte le trasformazioni, a tutti i travestimenti di cui è capace è godere in potenza mille gioie in una volta sola, conservando pur sempre la forza motrice; che anche domani, anche posdomani e sempre potrà farci nascere i desideri nuovi e aprirci orizzonti nuovissimi in quel cielo lontano, dove regnano i sogni e le chimere che son pur sempre la parte più bella della nostra vita.
Il fare è bello, ma dopo aver fatto il più delle volte non ci rimane altra risorsa che disfare.
Invece il sapere di poter fare è cosa grande e bella e gioconda, che cresce stima a noi stessi e fede nell'avvenire. E il denaro è l'unica cambiale pagabile a vista in ogni tempo e in ogni luogo.
Sopra ogni biglietto di banca, sopra ogni moneta sta scritto in caratteri invisibili ai più la bella parola posso; ma il vecchio la vede, la legge e la rilegge con amore, con intima gioia; sicuro che egli potrebbe tradurla da un momento all'altro nell'altra bellissima: voglio.
Perdonate dunque al vecchio la sua avarizia fisiologica, quella che non fa male ad anima viva e che egli concede tante segrete e profonde allegrezze.
Capitolo Settimo: Le grandi virtù e le grandi gioie della vecchiaia


... senectus nihil aliud quam
canus sapiensque intellectus

SANTI PADRI

Vi sono molte e diverse virtù, che chiamerei negative e dalle quali ripugniamo soprattutto quando siamo giovani.
Sono l'economia, la prudenza, la pazienza, l'indulgenza, la tolleranza, la modestia: tutte cose ottime e commendevoli; ma che mal si accordano con la spensierata gaiezza dell'età primaverile. Virtù cristiane e buddistiche per eccellenza, perché si informano sulla fede, che fa della vita terrena un breve passaggio alla vita eterna o fa del nirvana lo scopo ultimo della nostra esistenza. Virtù che il giovane loda assai, ma pratica poco, e che a bassa voce battezza per antipatiche. Quando poi egli è di cattivo umore, perché deve praticarle per forza, esclama irato:
“Felici coloro, che non hanno mai bisogno né di essere economi, né di essere prudenti, né pazienti, né indulgenti, né tolleranti”.
Meno male per la modestia: con un po' di facile ipocrisia si può essere superbi di dentro e modesti di fuori!
Mano mano gli anni passano e le forze diminuiscono, quelle virtù negative si vanno facendo sempre più utili, più necessarie; finché pigliamo un vero gusto nell'esercitarle. Sono corazze, che ci difendono da tanti malanni, sono callosità provvide e pietose, che ci difendono da tanti attriti sociali, dalle punture di tanti insetti umani: più noiosi e più velenosi delle zanzare, delle mosche e delle pulci.
I carabinieri, le guardie di pubblica sicurezza non sono di certo i più simpatici personaggi della nostra società civile, ma son necessari; e nessuno di noi oserebbe maledirli o torcer loro un capello. Or bene quelle virtù negative sono altrettanti carabinieri, ai quali affidiamo la difesa di tante cose preziose nel giro piccino del nostroIo. A forza di guardarli e di ringraziarli per il bene che ci fanno, si finisce per trovarli anche belli e li salutiamo con rispetto, se non con amore.
Le virtù negative, le virtù difficili son come i sigari o come l'assenzio. Si incomincia a trovarli amari o nauseosi e poi si forma un palato nuovo, che sa apprezzarne i reconditi pregi; finché non possiamo farne senza e ci divengon necessari quanto il pane e l'aria.
Per conto mio confesso, che farei senza piuttosto della camicia, che della triplice corazza di pazienza e di indulgenza, che mi son messo intorno alla fragile pellicola della mia nervosa personcina.


La pazienza

All'economia ho già dedicato tutto un capitolo. Vediamo di studiare le altre virtù negative, che indorano l'orizzonte del vecchio sano e felice.
Il giovane è per sua natura poco paziente. Ha la pelle fina e irascibile e ogni puntura di spillo è per lui un'offesa fatta alla sua dignità e contro cui reagisce violentemente. Non offende e non vuol essere offeso; cerca la gioia e la vuole piena, festante. Ha molto da fare e non vuol esser seccato. Quando sulla via trova un seccatore o una seccatura, getta l'uno e l'altra da parte; senza badare se il suo pugno abbia fatto male a qualcuno o a qualche cosa.
Non essendo paziente, non è tollerante, né indulgente; dacché la tolleranza e l'indulgenza sono figliuole legittime della pazienza.
Il vecchio invece ha imparato con una lunga e spesso dolorosa esperienza che molte seccature sono necessarie condizioni della vita, e che il volerle abbattere con la violenza è lo stesso che dare un pugno ad un tronco, che ci contende il cammino. Il tronco rimane al suo posto e la nostra mano ne rimane ferita o storpiata. E il vecchio si guarda bene dal voler abbattere la pianta, ma la gira, continuando il suo cammino.
Il giovane quando coglie le rose è ben raro che non si punga e non ne abbia insanguinate le mani. Il vecchio coglie le rose e non si punge mai.
La pazienza è buaggine, quando si sopportano i dolori, senza calmarli o guarirli con l'igiene della filosofia o con la terapeutica delle forze avverse.
La pazienza è virtù, quando si sopportano i dolori non sanabili né con l'igiene né con la terapia.
Il lamento breve, automatico può essere il grido spontaneo e irresistibile della natura offesa; ma quando dura, è la confessione umiliante della nostra debolezza, della nostra impotenza.
È verissimo che la pazienza è resa più facile al vecchio, perché in lui è minore la sensibilità; ma non cessa per questo di essere una virtù, ch'egli è andato acquistando con lunga fatica.
Egli ha anche imparato a sue spese che nulla è più prezioso del tempo e le ore o i giorni spesi nel lamentarsi sono una pura perdita del più prezioso dei capitali. I grandi uomini hanno trasformato i loro dolori in grandi opere d'ingegno o in alti eroismi. Goethe guarisce da un amore infelice scrivendo il Werther; e Garibaldi fulminato da una sventura crudele e umiliante pel suo cuore, guarisce con la spedizione dei Mille.
Senz'essere né Goethe né Garibaldi tutti i vecchi trasformano i loro dolori, i loro disinganni in pazienza; in una pazienza non vile, ma saggia, in una rassegnazione che non è soltanto cristiana, ma umana; in una forza d'inerzia che resiste al male e lo vince. Ad impossibilia nemo tenetur: egli ripete a se stesso e più volte questo assioma, che diventa guida fedele nel cammino della vita, così pieno di spine, di ostacoli e di inciampi.
Molti anni or sono alle mie lezioni pubbliche di antropologia non mancava mai una vecchia signora, che mi ascoltava con viva attenzione e a cui io guardava più volentieri che a cento altri uditori perché aveva nel volto un eterno sorriso, fatto di bontà e di contentezza.
E speravo sempre che mi si offrisse un'occasione per conoscerla da vicino e scoprire il segreto di quella felicità, che irradiava intorno a sé la simpatia e l'ammirazione.
Un giorno essa venne a domandarmi uno schiarimento ed io non potei resistere alla tentazione di confessarla.
“Ella deve essere ben felice, cara signora, perché le si legge in faccia una perpetua giocondità e fa tanto piacere il guardarla, ch'io nelle mie lezioni spesso non parlo che per lei.”
La buona signora si mise a rider forte, ma non disse verbo.
Ed io:
“Ella deve avere una famiglia, che la circonda di tenerezze e di amore, dei nipotini che giocano con lei...”
E la buona signora, ridendo ancora, si scoprì un braccio: “Ella già è medico e non avrà ribrezzo di vedere una cosa molto brutta...”
Aveva una piaga cancerosa estesissima, che le divorava pelle, muscoli, ossa...
“Oh povera signora, quanto deve soffrire... Ma come può ella assistere alle mie lezioni col volto sempre sorridente... perché ella deve soffrire dolori atroci...”
“Sì, ma non sempre. Ed io sorrido, perché sono paziente e non voglio ispirare compassione o ribrezzo ad alcuno. So che di questo male devo morire e cerco di passare meno male possibile i miei ultimi giorni. Assisto a molte lezioni, vado in teatro e soprattutto mi diverto con me stessa, mostrandomi più forte del mio male. È una specie di amor proprio, di eroismo modesto quello di vincere il dolore e di mostrargli, che io sono più forte di lui. Quando non ne posso proprio più e mi scappa un lamento, anche quando nessuno lo sente, io mi trovo avvilita; quasi come deve esserlo un generale, che ha perduto una battaglia, o un avvocato che ha perduto una causa, e mi propongo di essere più brava un'altra volta. L'assicuro che son riuscita a stare sette giorni intieri senza dire un ahi o un oh. E godo di questa mia bravura e quando mi vedono sempre sorridente e mi sento dire, come mi ha detto lei: quanto deve esser felice! godo, godo assai, perché vedo di essere riuscita non solo a nascondere la mia lurida piaga, ma anche i miei dolori. E son fiera di me stessa... Dirà, caro professore, che la mia è una mania singolare, ma è però una mania che mi tien viva e mi fa superba di essere un po' diversa da tutti gli altri, che con un male molto minore non fanno che lamentarsi, seccando tutti...”
Strinsi la mano più volte a quella brava donna, dimostrandole tutta la mia ammirazione.

Ebbi anche un amico, che è morto di 82 anni e senza malattia, passando dal sonno alla morte, senza che nessuno se ne accorgesse. Egli non aveva nessuna piaga sul corpo, ma soffriva di qualche acciacco dell'estrema vecchiezza. Eppure era sempre gaio, sempre disposto a sorridere a tutte le infinite bellezze della natura e a ridere cordialmente e senza fiele delle più che infinite ridicolezze umane.
Egli mi diceva sempre: se il fiato che sprecano nel lamentarsi tutti i vecchi lo adoperassero a soffiar via lontan lontano da sé fastidi e i pensieri di color oscuro, non maledirebbero la vecchiezza, che ha per sé tante care e buone cose. Contro i mali inevitabili io ho il contravveleno della pazienza, che adopero in diversa dose a seconda della importanza del veleno. E poi a furia di ottimismo son riuscito a scoprire che un uomo tutto quanto perfido e un fatto intieramente sciagurato son due cose che non esistono in natura e credo non potranno mai esistere. Ogni uomo ha un lato buono e ogni disgrazia porta seco qualche bene; ed io mi ingegno a trovare il buono e il bene, e più è nascosto e più mi diverto a trovarlo; precisamente come le sciarade più difficili a spiegarsi son quelle che più ci divertono. Invece purtroppo la maggior parte degli uomini fa ogni sforzo per ingrandire il lato cattivo degli uomini e delle cose, trascurando e dimenticando del tutto il lato buono.
Vi sono uomini disgraziati, che impiegano tutta la loro vita in questa sola pazza, stupida e fedele occupazione di trovare il pelo nell'uovo; mentre quei pochi, che sortono da natura la fortuna di esser felici, è perché cercano l'uovo nel pelo; fanno cioè l'opposto dei primi. Voi mi direte, forse ridendo, che nessuno dei due riesce nel suo intento, ma io che son vecchio posso assicurarvi, che col microscopio dell'ottimismo o col telescopio dell'idealità son sempre riuscito a trovare l'uovo nel pelo; cioé dovunque e sempre un germe di meditazione o una scusa del peccato; un lato estetico anche nei gobbi.... Ho trovato sempre il filo tessile nell'ortica e il profumo nell'assenzio.


L'indulgenza

La pazienza e l'esperienza, che non fanno rima soltanto nelle parole ma anche nell'armonia delle umane cose, ci procurano quella cara e santa virtù che è l'indulgenza, tanto rara nela giovinezza, tanto comune nella vecchiaia; a cui porge infinite dolcezze e a cui dà un'amabilità grandissima.
Fra la pazienza e l'indulgenza sta la tolleranza, che tiene dell'una e dell'altra e che le riunisce in un vincolo di strettissima parentela.
Vi sono debolezze e viltà e iniquità nell'uomo, che non possiamo approvare, né giustificare; ma nel giovane risvegliano lo sdegno e nel vecchio invece ispirano la tolleranza.
Nella gran fabbrica degli uomini, assai più difficile di quella delle ciambelle, vengon fuori dei gobbi, dei nani, degli idioti, tanto nel corpo come nell'anima; e dacché non possiamo ucciderli, dobbiamo accontentarci di tollerarli, studiando intanto di perfezionare quella fabbricazione, che finora è sempre nello stato infantile e mitologico della più oscura ignoranza.
Dalla tolleranza all'indulgenza non vi è che un passo, e indulgenti son tutti i vecchi sani e buoni. Il perdono è una virtù sublime della vecchiaia, e se la insegnò e la predicò Gesù Cristo, benché giovane, fu il solo e meriterebbe il nome di un Dio anche per questo solo, di avere insegnato a perdonare.
Guardatevi intorno e anche senza uscire dal giro ristretto della vostra famiglia, vedrete come l'indulgenza cresca con gli anni.
Voi avete preso moglie e avete avuto parecchi figliuoli. Or bene col primo siete severissimo, col secondo severo, col terzo giusto, con gli altri indulgente. I vostri genitori poi, nonni dei vostri figliuoli, son con tutti indulgentissimi.
Di questa indulgenza si dà merito alla debolezza senile, e invece di quella virtù ha merito l'esperienza degli uomini e delle cose.
Quando si è giovani, si ha una fede cieca nell'impotenza dell'educazione e si vuole che i nostri figliuoli sieno altrettanti geni, altrettanti eroi; modelli di perfezione in tutto. E le armi pedagogiche si maneggiano con crudele coraggio: l'emulazione, il castigo, le busse del corpo e le umiliazioni dell'amor proprio. Nostra divisa è: chi molto ama molto castiga. E si sogna il beato sogno, che d'una zucca si possa fare un popone e di un asino un cavallo.
Ma poi, poco per volta, siam costretti a confessare, che ad onta di tutto il nostro crudele e artificioso armamentario della pedagogia la zucca è rimasta zucca e l'asino è sempre un asino. Tutt'al più la zucca è divenuta un po' meno insipida e l'asino ha accorciato un tantino le proprie orecchie.
E allora si ripongono le ferule e gli scudisci, si ha vergogna di aver dato degli schiaffi e si viene a' più miti consigli, accontentandosi di ammorbidire con un po' d'olio le ruote rugginose, di strappar qualche spina, di arrotondare qualche punta. Miglioriamo la zucca e diamo un po' d'intelligenza all'asino, senza più pretendere alle metamorfosi di Ovidio. Un po' per volta troviamo che anche la zucca, anche l'asino hanno una missione in questo basso mondo; hanno anch'essi la loro utilità.
E diveniamo indulgenti.
Santa e cara e gioconda virtù, che spande una luce rosea su tutto ciò che tocca: santa e cara e gioconda virtù, che ci fa simpatici a tutti dacché tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, qualche piaga da nascondere, qualche difetto, di cui devono arrossire.
Noi abbiamo in orrore specialmente quei difetti, che feriscono il lato più sensibile dell'anima nostra e ci ribelliamo ad essi e vorremmo distruggere con il colpevole la macchia, che offende in noi il lato estetico o morale; ma l'esperienza ci ha dimostrato, che né la ribellione, né lo sdegno possono campiare il carattere degli uomini, e al posto dello sdegno abbiamo messo con gli anni il compatimento; giudicando tutto e tutti con un'indulgenza grandissima.
Badate bene, che l'indulgenza non è rinunzia delle nostre convinzioni, né mancanza di fede nel bene e nel male, né scetticismo cinico. Indulgenza vuol dire bontà e giudizio fusi insieme; e la nostra dignità di galantuomini e di gentiluomini, non viene per essa ad abbassarsi di una linea; ché anzi ci innalza ad una sfera superiore. Chi perdona sta sempre più in alto di chi è perdonato; mentre chi disprezza e insulta, per disprezzare o insultare, deve scendere al livello del suo avversario.
Fra le tante virtù, che i cristiani hanno dovuto al loro Dio, forse la più bella è appunto quella della misericordia; parola alquanto mistica, ma che tradotta in lingua povera vuol dire una infinita indulgenza per tutte le umane debolezze, per tutti i peccati, che può commettere il fragile figlio di Adamo e di Eva. È vero, che l'invenzione dell'inferno ha sciupato alquanto l'idea divina di quella misericordia; ma parecchi teologi poco ortodossi, ma molto ragionevoli, hanno negato l'inferno, accontentandosi del purgatorio; e questo si può conciliare anche con la misericordia, visto che gli uomini non hanno né limite né creanza nel peccare e l'indulgenza eccessiva non deve poi esser più grande della facoltà infinita al peccare!


Le opinioni

Anche all'infuori dell'indulgenza, che si esercita soprattutto nel campo morale e nel circolo della famiglia e degli amici, il vecchio è tollerante per tutte le opinioni; purché non tocchino i dogmi dell'onestà e della dignità umana.
All'infuori di questo sancta sanctorum, che giovani o vecchi dobbiamo tutti difendere e rispettare, il vecchio, che non ha più né ciechi fanatismi, né ardenti passioni, sa che tanto a sinistra come a destra e anche nel centro c'è del buono e c'è del vero, e pur conservando le proprie opinioni, rispetta le altrui.
Il giovane è apostolo, ed è bene che lo sia. Il vecchio è convertito da un pezzo ad una religione politica, etica e religiosa, che è sua e che non diserta più, pur senza avere la superbia di credersi infallibile e di giudicar sbagliate tutte le opinioni contrarie alla propria. C'è posto, egli dice, per tutti; per i codini e per i socialisti, per i cattolici e per gli atei. Tanto tanto dobbiam vivere gli uni accanto agli altri. Vediamo di viaggiare di buon accordo, tollerandoci a vicenda. Rispettiamo le nostre donne e i nostri averi, e basta.
All'apostolato poi il vecchio ha rinunziato da un pezzo. Crede poco alla sua efficacia e ha poco tempo da buttar via. Sulle conversioni politiche, morali, religiose è molto scettico e diffidente, e ne ha la stessa opinione che per l'onnipotenza dell'educazione.
Il nuovo lo interessa, si compiace dell'antico; ma sopprattutto gode del presente, che assapora lentamente e con epicurea voluttà.
Il vecchio autocratico, codino, retrogardo, è o decrepito o malato. Concedo al vecchio d'essere conservatore: anzi è fisiologico, è naturale ch'egli lo sia, ma retrogrado mai.
Il vecchio sano nel corpo, nel cuore e nel pensiero, guarda all'avvenire con la stessa compiacenza con cui lo guardano il giovane e l'adulto. Soltanto è più prudente sui metodi per raggiungerlo: fors'anche l'avvenire ch'egli sogna e spera sarà un po' diverso da quello che sogna e spera il giovane, ma anch'egli lo desidera più giusto e meno ipocrita.
Il vecchio liberale è uno dei tipi più simpatici, più cari della umana famiglia.
Quando vedo e ascolto un uomo, che con i capelli bianchi, parla con entusiasmo e con calda fede del progresso, del trionfo della verità giusta, della sana idealità contro la superstizione io mi sento commosso e lo guardo con tenerezza piena di ammirazione. Provo la stessa alta emozione, che mi danno le alte cime delle Alpi, quando le indora il sole. Neve e ghiaccio sì, ma frementi anch'essi sotto il palpito di quel babbo celeste, che semina la vita sui suoi pianeti, dicendo a tutte le creature: avanti, avanti sempre!


La rispettabilità

Non ultima gioia della vecchiezza è la rispettabilità che la circonda. Sia nei modesti travagli dell'officina o dei commerci, come nelle sfere più alte dell'arte, delle lettere, o delle scienze, o nelle svariate faccende delle professioni liberali; il vecchio deve essersi fatto un posto al sole, deve aver acquistato una certa superiorità, che gli viene dalla lunga pratica. Egli deve essere un maestro, e i francesi con fino accorgimento, con nessun'altra parola credono di onorare un grande artista o un grande scienziato, che chiamandolo non cher maître.
E maître non si può essere quasi mai che con i capelli bianchi, maître non si può essere che dopo essere stati modesti operai in una delle tante officine del pensiero, dopo aver sudato e pianto sul calvario della gloria, provando e riprovando; alternando i sudori freddi del dubbio con la febbre ardente della fede.
E il maestro riposa ormai contento di sé e degli scolari che lo circondano e lo ammirano, e nei quali egli ha versato tanto tesoro di idee. Paternità sacra e veneranda più di quella che vien dal sangue, perché nella coppa della vita non siamo noi soli i mescitori; ma nella scuola e nell'officina il maestro è in una volta sola padre e madre, genitore duplice e sempre legittimo.
In molti casi maestro è più che padre, e povero, infelice quel padre, che giunto alla vecchiaia e guardando i propri figli, non può dire con giusto orgoglio e intima compiacenza:
Io sono stato il loro maestro!
Capitolo Ottavo: Le piccole gioie della vecchiezza


.... optabilem esse senectutem juvenilem,
molestam vero juventutem senilem.

CHILONE

La pipa

Felice il vecchio, che non ha mai fumato e non invidia i fumatori; ma pur troppo gli amici del tabacco son molti, e tutta la popolosa schiera degli infelici, dei malcontenti, degli annoiati trova nella nicoziana un conforto, una sorgente feconda di piccole gioie.
Fra i fumatori, nessuno fuma meglio né con arte più epicurea del vecchio.
Se preferisce la pipa, ha per essa un culto, un'adorazione, che non si suole avere che per le cose più sante.
Nessuno l'ha a toccare fuori che lui, nessuno la deve ripulire e tener tersa e lucente fuor di lui.
La pipa è per lui quasi una creatura viva, appunto perché vive con lui, accompagnandone i pensieri, i ricordi, le voluttuose sonnolenze.
È anche per questo, che preferisce fumare nella solitudine della sua cameretta o della sua passeggiata.
Due quadri della vita umana ho veduto spesso, in apparenza molto diversi, in sostanza molto simili: una mamma che lava il proprio bambino, un vecchio che ripulisce la propria pipa.
E le mamme non gridino al sacrilegio, perché nel mondo dei viventi non v'ha fibra o cellula, che non si con leghi per nervi invisibili alle fibre e alle cellule le più lontane.
La mamma amorosa contempla il suo angioletto e lo ammira e ne segue con l'occhio e con la mano purificatrice i rosei contorni, palleggiandone le soavi rotondità, giuocherellando con le membra minute, che guizzano e saltellano nell'onda amica. È una tempesta di carezze e di baci che copre il ciangottar dell'acqua; è una profonda sensualità delle mani, che accarezzano, che palpano e direi quasi che parlano con le carni tenerelle e fresche. Carni belle e palpitanti di vita e che son carni della mamma, perché le ha fatte lei e le ricordano tutto un mondo di voluttà ardenti, di lunghi dolori, di lunghissime trepidazioni.
E il vecchio ha la sua pipa, che per quanto fragile, ha già dieci anni di vita vissuti senza ferite e senza accidenti, ma con molto onore; dacché le zone del tempo che fu vi hanno scritto la loro storia in tante ondette, che dal bianco dorato vanno fino al nero dell'ebano. Quanto fumo è passato attraverso i pori di quella lucidissima pietra e quante dolci meditazioni hanno accompagnato quel fumo! In quelle tinte di ambra, di magogano, di noce, il vecchio ripensa mille pensieri giocondi e le tante ore vissute senza dolore e senz'ira.
E quando la cava dal suo astuccio e la ripulisce cautamente, pazientemente, rispettando le carezze del tempo, ma levando ogni granello di cenere e passando e ripassando per il fornello, per il tubo e levigando l'ambra e rimettendola in assetto di guerra, prova un gran piacere, che ai non fumatori può sembrare puerile, ma ai veri artisti della nicoziana è tutto un poema.
Chi ha veduto nella buvette del Senato il generale Durando con la sua eterna pipetta di gesso in mano e l'ha seguito nelle amorose cure che le prestava, può intendere le infinite compiacenze del vecchio fumatore, i suoi tanti e lunghi colloqui con la sua cara compagna di schiuma o di gesso.
Anche per il sigaro il vecchio può aver moine e carezze, ma la poesia è molto minore, perché si rivolge a una creatura che vive un quarto d'ora.
Il sigaro è un amore di passaggio, la pipa è un'amante, anzi una moglie; ma una moglie rimasta sempre amante.
La mano alquanto tremula, che sfila un Virginia e vi passa e ripassa la fida paglia, che gli ha tenuto lunga compagnia, è una mano che gode.
La mano che taglia la punta di un biondo e nervoso Avana, è una mano felice, perché promette al vecchio epicureo sogni e profumi.
Ma Virginia e Avana sfumano fumando e di loro ahimé non rimane che un po' di cenere; mentre la pipa, dopo averci offerto l'olocausto del suo altare, rimane nel nostro taschino accanto al cuore; tiepida dell'ultimo fiato, promettitrice di altre gioie future, fino all'infinito.


Abitudine e simmetria

Il giovane è vagabondo, versatile, amico del nuovo e dell'inaspettato.
Il vecchio è abitudianario e gode nel fare le stesse cose alle stesse ore, di rivedere le stesse persone allo stesso tavolino del caffé, di trovare al mattino sullo scrittoio ogni cosa all'usato posto.
Dall'ordine delle cose e del tempo egli trae un inconscio augurio, che anche in lui le funzioni tutte camminino regolarmente, che il pendolo misuri esattamente l'ordine dei suoi piaceri, delle sue occupazioni.
Il vecchio non ama le sorprese, perché sono per lui urti improvvisi, che gli danno una scossa troppo forte. Ama invece il ripetersi preciso delle stesse cose alle stesse ore; e quando l'appetito, la sete, la voglia di fumare lo chiamano all'ora consueta e precisa, egli è felice di constatare l'armonia perfetta di lui con le cose che lo circondano.
La simmetria vuol dire per lui salute, la puntualità nei ritrovi vuol dire galateo; il tic-tac del pendolo poi non dice a lui le desolanti parole, che mormorava all'orecchio del grande poeta americano: ever never (sempre, mai); ma proclama a voce sommessa, che l'ordine regna dappertutto: in cielo e in terra, in casa e fuori, nel territorio del suo lo come nella gran patria, di cui è cittadino.
Curar la simmetria, mantener l'ordine, sono occupazioni carissime e quotidiane del vecchio; son gioie che il giovane ignora quasi sempre e gode soltanto, quando una vecchiaia precoce gli toglie le allegrezze della propria età per dargli in cambio quelle della vecchiaia.


La poltrona

Sarà questa una gioia egoista, ma è anche una gioia umana; quella cioé di star seduti e di veder gli altri in piedi.
Sarà nel piccolo teatro della commedia o della tragedia o nel gran teatro del mondo sociale; ma voi siete arrivato prima e avete trovato una sedia e vi restate. La vostra età vi dispensa di offrirla anche alle signore e vi restate.
Non è forse vero, che tante e tante volte siete rimasto in piedi, stretto e soffocato dalla folla, che vi pestava i piedi e vi apppestava con il suo fiato?
Non è forse vero, che per molti anni avete ceduto il vostro posto alle signore perché donne; ai poveri perché infelici; ai bambini perché piccini; a molti e molti perché prepotenti?
Ma oggi siete vecchio e avete diritto a sedere prima d'ogni altro e vi sedete senza rimorsi; magari forse in una soffice e profonda poltrona, che vi abbraccia tutto quanto, che vi fa sentire dal capo ai piedi che ogni particella del vostro corpo s'adagia e riposa.
Se poteste, alzandovi e cedendo il vostro posto, far sedere tutti quelli che stanno in piedi, lo fareste ben volentieri; ma ahimé sono troppi e son più giovani di voi e più forti. Pazienza! Si siederanno anch'essi, quando voi, facendo l'ultimo viaggio, avrete lasciato loro libera la vostra sedia; quando anch'essi avranno i capelli bianchi.
Per ora il sieduto siete voi, e vi perdono anche, se sorridete un pochino, cedendo l'andare e il venire e l'affannarsi e lo strepitare dei molti, che cercano invano una sedia; fosse pure di paglia o di legno.
Tutti gli uomini nati sotto il sole possono sedere, dacché a tutti quanti la mamma ha dato l'organo per poterlo fare; ma pur troppo non sono gli organi che mancano, ma le sedie. Anzi è appunto in questo squilibrio fra i sederi e le sedie che sta il grande problema sociale e per la cui soluzione son tante le proposte, quanti sono i cervelli umani.
Sia ad una conferenza o in una chiesa, in un teatro o in un meeting; se voi guardate d'un colpo d'occhio tutti gli atteggiamenti dei seduti, vedrete quanto sieno diversi secondo la loro età. I giovani son sempre seduti per metà, quasi volessero mantenersi pronti alla partenza. Hanno troppo da vedere all'intorno, signore o amici o nemici. E poi hanno sempre come un piccolo rimorso di star seduti, quando molti stanno in piedi e guardano allora in terra o fanno il distratto e guardano per aria, come chi commette un peccato. C'è là nel fondo una signora in piedi, c'è un conoscente che è zoppo, c'è un loro maestro, che invano hanno cercato una sedia. Ed essi son seduti; ma il rimorso guasta loro la gioia del riposo e sono inquieti e dispiacenti. La sedia c'è, ma nel cuscino ci sono nascoste delle spine psichiche.
Il vecchio invece non ha nel suo cuscino che voluttà; voluttà piena, senza alcun pentimento, senza alcun rimorso.
Perché quesi signori che sono in piedi non son venuti prima, perché non hanno fatto una corsa? Io son seduto e ci sto bene, anzi benissimo. E le mani del vecchio si appoggiano sul bastone per aggiungere riposo a riposo e i suoi sguardi lentamente e lungamente girano all'intorno, compiangendo i non seduti.
Egli possiede col diritto più sacro, quello dell'occupazione legittima.
Egli pronunzia entro di sé le parole del romanzo antico, ripetute in Roma da un gran re moderno: hic sumus et hic manebimus optime.
Dal teatro, dalla sala, dalla chiesa portate il vecchio nel gran circo del mondo e anche là vedrete ripetersi su più vasta scala la stessa scena; perché anche là nella scala della gerarchia avete pochi seduti e molti in piedi, e le sedie son di tante e più categorie che nel teatro, nella sala e nella chiesa.
E anche là il vecchio rimane seduto beatamente e senza rimorsi, mormorando sempre:
Hic manebimus optime!


Libro vivo e parlante

Un'altra gioia del vecchio è quella di raccontare le vicende della sua vita.
Egli è quasi sempre un felice e facondo narratore, e quand'anche la natura non gli avesse concesso il dono dell'eloquenza, egli racconterebbe bene; perché ha ripetuto tante e tante volte le stesse storie, da abbellirle e adornarle di nuovi fronzoli.
Sia egli un uomo del volgo o un uomo grande, egli ha sempre veduto molto, e nessuna vita, per quanto pedestre, manca di una lunga storia di avventure, di accidenti e di incidenti.
È un cacciatore o un pescatore o un viaggiatore o un soldato o un marinaio. Ha in ogni modo nella gerla cento aneddoti curiosi, cento storie piccanti o meravigliose. E poi in ogni caso ha raccolto dalla bocca degli altri aneddoti e storie. Egli è un libro vivo e parlante, e aprendolo a caso, in qualunque pagina, ha sempre qualcosa di nuovo e di interessante da narrarvi.
Anche senza genio alcuno, anche senza aver viaggiato, combattuto battaglie o navigato oceani; come uomo avrà sempre avuto avventure amorose ed egli, pur tacendo nomi e luoghi, avrà il suo piccolo almanacco erotico, qualche conquista di cui potersi vantare, qualche piccola bricconata, di cui egli fu il fortunato briccone.
Come allora diventa giovane quel vecchio narratore! Come gli sfavillano gli occhietti stanchi, come gli corrono sulle labbra i baci non obbliati, come gli scintilla e gli accende la parola; e come gli si rizza il capo curvato, quasi ad ogni episodio, volgendo lo sguardo agli ascoltatori, volesse dir loro:
Eh! Non c'è male, per Dio! Avete voi altri avuto la stessa fortuna?
Rossini e Mamiani, quasi coetanei e compaesani, quando si trovavano assieme al caffé o nel fido asilo della loro casa, si narravano a vicenda le loro passate fortune amorose, quasi sfidandosi a chi dei due più meritasse la fama di Don Giovanni.
Rossini nato bello e spiritoso e con l'aureola divina del primo genio musicale del suo tempo, pareva dovesse stravincere il filosofo nato brutto e con un genio alato, ma che pochissimi potevano intendere ed apprezzare.
E invece Rossini doveva confessare di dover cedere il primo posto al filosofo nelle fortune d'amore.
Ma come dovevano godere quei due grandi vecchi, narrandosi a vicenda le loro imprese dongiovannnesche e come è da rimpiangere che un indiscreto ascoltatore non abbia serbato ai posteri quei fidati colloqui.
Fra le tante e belle cose avremmo potuto avere un nuovo capitolo dell'Ars amandi, che Ovidio non seppe scrivere. Avremmo potuto imparare come e perché un filosofo, poeta fin che si vuole, ma bruttino anzi che no, abbia avuto presso le donne maggior fortuna dell'olimpico cigno pesarese, che innondava il mondo di tante e sublimi armonie e melodie, che delizieranno l'umana famiglia fino alla fine dei secoli!
Capitolo Nono: Le memorie nel vecchio


C'est bien vrai, on laisse un peu de soi dans les choses, de ses souffrances, de ses espèrances, et quand on les retrouve, elle vous parlent, elle vous redisent ces choses, qui vous attristent ou vous égayent.

E. ZOLA


La più grande sventura della vita è la vecchiezza scevra della ricordanza della virtù.

BUZURG, detto il Seneca dell'Oriente

Noi realmente non godiamo e non soffriamo che il momento presente. In ciò siam tutti eguali, giovani e vecchi, ricchi e poveri, genio e volgo.
Il passato non ci appartiene che in immagini conservate dalla memoria; l'avvenire non è nostro che nelle sembianze che ci dipinge la speranza o il timore, il desiderio o la paura.
L'uomo più potente e più fortunato, ricco di tutte le energie del pensiero e del sentimento, non può che rendere il piacere più intenso, chiamando in amoroso convegno con le piacevoli sensazioni del presente la folla più gaia delle memorie passate e delle speranze dell'avvenire.
Il selvaggio e l'idiota non hanno che una debolissima capacità di concentrazione e alla scena reale del presente non possono chiamare che pallide e fuggevoli memorie e languidi desideri di un di là e di un di più.
L'uomo di robusta fantasia e di tenace memoria fa del fuggevole istante tutta una festa, a cui sono invitati tutti i più lieti ricordi del passato, tutti i rosei fantasmi dell'avvenire; ed è davvero una fortuna provvidenziale, che il volgo non possa intendere quanta intensità di gioie del pensiero e del sentimento può concentrare in un istante un cervello potente e fortunato.
Questa è la vera, la vitale differenza, che passa fra uomo e uomo nel godimento della vita; differenza che avanza tutte le altre segnate dalla bellezza, dalla fortuna, da tutte le infinite disuguaglianze umane.
E non è da credersi, che il genio solo o soltanto il sentimento fantasioso possa dare a noi questa fortunatissima delle fortune; perché vi sono dei geni molto infelici, che adoperano la luce del loro pensiero per illuminare soltanto il dolore, e d'altra parte vi sono cuori troppo sensibili, che vivono in un palpito continuo di dolorose tenerezze e di convulse suscettibilità.
Il preziosissimo dono di far convergere nel fuoco dell'istante che fugge i raggi del passato e quelli dell'avvenire è virtù congenita, che l'educazione può affinare ma non creare, e che consiste, per dirlo in una parola, nell'antitesi, nel viceversa dell'ipocondria; in una felice armonia di sensibilità squisita e di volontà robusta. Queste nature privilegiate sono lenti acromatiche, sono apparati di accomodamento psichico più perfetti d'ogni strumento ottico; più perfette del nostro occhio, che è pure uno dei grandi miracoli della natura.
Ammessa in tutti quanti, questa capacità di concentrazione mirabile del passato e dell'avvenire dà risultati molto diversi secondo le diverse età. Nella giovinezza abbiamo poco passato di cui disporre e molto avvenire, nell'età adulta un'equazione quasi esatta dei due elementi; nella vecchiaia invece ricchi tesori di memorie e un povero avvenire.
Ed è in questa differenza appunto, che i più credono di trovare la grande infelicità del vecchio, per cui tutto il patrimonio di gioie è nel passato, che più non ritorna, mentre è così ristretto l'orizzonte dell'indomani.
Errore codesto, ispirato da quel pessimismo brontolone, che è forse il vero peccato originale dell'umana famiglia.
È forse l'avvenire più nostro del passato? No e poi no. Di nostro, non v'ha che il presente. Passato e avvenire sono fantasmi, e se fra questi due v'ha differenza, è tutta a vantaggio del passato, che fu nostro; mentre l'avvenire ci può scomparire fra mano, domani, forse oggi stesso, forse fra un'ora. Si può morire ad ogni età, mentre d'altra parte anche a cent'anni si può sperare di campare fino ai centodieci, perché altri uomini vissero fino ai centoquaranta, e lo ha detto San Girolamo, già molti secoli or sono:
“Nemo enim tam fractis viribus et decrepitæ senectutis est, ut non se putet unum adhuc annum esse victurum. “

Se non siete artista, se non siete archeologo, se non vi siete mai fermato commosso davanti al Colosseo o a una cattedrale annerita e corrosa dai secoli, voi potete saltare le pagine seguenti, perché non furono scritte per voi.
Il tempo non soltanto consuma, non soltanto arrugginisce i metalli o appanna i vetri e corrode le colonne, non soltanto lima le rocce e appiana i monti; ma nel tempo stesso smorza col suo andare la nudità dei contorni, l'impertinenza dei colori e l'acutezza degli spigoli, deponendo quel che si chiama nel linguaggio tecnico degli archeologi e dei numismatici la pattina, e che nella lingua della poesia, tante volte più vera di quella della scienza, dicesi il fiato del tempo.
Le cose nuove hanno per sé la freschezza, la lucentezza, la gaiezza; ma son sempre un po' impertinenti, un po' chiassose, sentono un po' del parvenu. Son nobili con blasoni comperati ieri, son cavalieri di recentissima nomina. Sono ragazzi nati da poco, che saltano, gridano e fanno il chiasso.
Le cose antiche sono nobili di vecchia data, rispettabili, solide. Vi si può appoggiare senza paura: si contemplano con venerazione, almeno con rispetto. Le cose nuove ci rallegrano, ma le antiche ci fanno pensare. Le cose nuove si adoperano, le cose antiche si conservano sotto chiave; e ogni giorno che passa accresce la loro rispettabilità e il loro valore.
Benché in selce, questa freccia ha una pattina. Benché di selce, anch'essa ha raccolto il fiato del tempo, che per più di cinquanta o sessanta secoli l'ha accarezzata e baciata. Quanta storia in quel frammento di pietra! L'uomo che l'ha fabbricata è da cinque o seimila anni scomparso e le sue ceneri son già passate attraverso chi sa quante mille e mille creature del mondo verde e del mondo roseo. Forse più d'una molecola di lui è in noi, ma di lui non è rimasto nulla; neppure il nome, neppure il nome della razza a cui egli apparteneva.
Ma no, rimane di lui questa scheggia amorosamente lavorata e sfaccettata dalle sue mani; mani come le nostre e che attraverso i secoli si ricongiungono con le nostre.
Quanta storia in quella freccia, quanta densità di memorie in quella pattina non più alta si un decimo di millimetro, eppure più ricca di pagine della Bibbia.
E questa moneta di Giustiniano imperatore, lucente ancora nel suo oro bizantino, ma tosata con discrezione da qualche usuraio turco, ma accarezzata anch'essa dal fiato di tanti secoli?
Anch'essa ha la sua pattina e noi la palleggiamo e la palpiamo con amorosa tenerezza. Forse passò per le mani di Teodora e fu data da lei in premio ad uno dei tanti suoi amanti. E per quante altre migliaia di mani non è passata, portando sulla sua piccola ruota la fortuna e la vergogna degli uomini, le loro libidini e i loro desideri; premiando or la virtù, ora il vizio, e pur serbando nel fango della prostituzione o fra gli incensi dell'idolatria il suo riso ironico del metallo più vile e più superbo dell'umana mineralogia!
Come nelle foreste i vecchi tronchi degli abeti e delle querce ci narrano le glorie della loro lunga vita coi licheni policromi e le molli borracine che li rivestono, e nelle cento cicatrici ci narrano gli schianti dei fulmini, i colpi d'ascia del boscaiuolo, i capricci degli amanti; così ogni cosa antica escita dalle mani dell'uomo ci parla sommessamente, misteriosamente e in diverse lingue la lunga e paziente e dolorosa storia della civiltà.
I marmi ce la raccontano con le corrosioni delle nere verrucarie, i bronzi con il fiato verde della loro pattina, i graniti con l'appannatura del feldspato decomposto. Il legno ci ripete coi suoi gemiti il morso secolare e paziente dei tarli; e il vetro stanco di tanta luce passata attraverso le sue trasparenze, si riposa nell'iride dei raggi da lui decomposti. Perfino l'immortale porcellana di Satsuma ci ricorda nella sfumatura lasciatavi dai secoli un'arte obbliata coi nomi dei suoi grandi artefici.
Verderame o ruggine, pattina o corrosione, tarli o fenditure ci raccontano tutti la storia dei secoli; l'andare eterno della materia che non posa mai e mai non muore; riscontro armonico delle borracine e dei licheni dei giganti della foresta.
E il vecchio legge questo muto linguaggio dei secoli che furono, assai meglio del giovane; perché anch'egli è un bronzo antico, anch'egli porta sulla sua pelle la pattina del tempo che fu. Egli ha una stretta parentela con tutte quelle cose su cui ha fiatato il tempo, e con esse rivive il tempo che fu.
All'infuori dell'archeologia il vecchio ha un ricco museo di memorie sue: memorie di cose, memorie di uomini. Son tristi e son liete: più numerose forse le prime che le seconde, ma più pallide assai di queste.
Noi tutti ricordiamo con vivezza maggiore i piaceri che i dolori, s'intende sempre a parità di forza; dacché con la nostra volontà rinfreschiamo, ricordandole, le gioie del passato e spesso cacciamo via le tristi immagini dei dolori patiti.
Dolori e gioie son ripartiti fra gli uomini con ingiusta misura, per colpa nostra e della fortuna; ma la memoria serba come tesori i dolci ricordi e cancella i dolori; e anche quando questi furono forti, dopo i lunghi anni, si dipingono nell'orizzonte lontano come mesti fantasmi, che ci commuovono, ma non ci fanno soffrire. Il dolore si è trasformato in malinconia e questa è spesso cara, né la vorremmo cancellare dalle nostre emozioni. Se potessimo ricordare affatto i nostri cari morti e gli amori sepolti e gli amici lontani per sempre, ci vergogneremo di noi stessi come di una viltà.
Nei nostri giardini, se siamo appassionati cultori di fiori, abbiamo sempre anche il geranio notturnino, modesto nelle foglie, triste nei fiori; ma questi, piccoli e oscuri, quando tramonta il sole emanano un profumo acuto come di aromi orientali portati da un vento lontano. E quel profumo dura tutta la notte e scompare col crepuscolo dell'alba.
Così nel giardino del nostro cuore i muti ricordi del passato devono rappresentare quel geranio della notte, e anch'essi devono innalzare nel nostro cielo i lontani profumi del tempo che fu.
Dall'infanzia alla canizie che lungo cammino! La vita è breve, quando la misuriamo col metro del desiderio; ma quanto è lunga, se l'accompagniamo passo a passo, palpito a palpito, dal primo bacio della mamma alla prima neve caduta sul capo!
Quanti uomini diversi si son succeduti l'un dietro l'altro sotto la buccia sottile del nostro lo; il bambino, il fanciullo, l'adolescente, l'uomo adulto; ed ora il vecchio li riassume tutti quanti quegli uomini, che, pur rimanendo una stessa creatura, ebbero gioie e dolori così diversi; altrettanti volumi di un'opera sola, di uno stesso autore e a cui non manca più che di scrivervi la fatale parola: fine!
Da tutti quei volumi sfogliati dalle nostre mani commosse emana un odore di cose lontani e soavi; un profumo molle di terra bagnata da una pioggia dopo una lunga sete; un aroma di vecchio cuoio di Russia, di un mazzolino di mammole dimenticato da anni in un armadio.
Nessuno dei nostri sensi ricorda i luoghi e i tempi come il più imperfetto dei cinque; e come un odore ci fa riapparire viva e palpitante una scena della nostra vita dimenticata forse da quaranta o cinquant'anni, così tutte le memorie ci appaiono indistinte, nebulose, crepuscolari come profumi, che non hanno forma né colore. Nessuna cosa rassomiglia più ad una memoria del passato quanto un profumo, che l'ala di vento ci porta di lontano.
E con noi quanti compagni incominciarono lo stesso viaggio e ci abbandonarono lungo il cammino!
Eravamo mille, quando uscimmo alla vita e giunti alla stagione dell'amore non eravamo più che cinquecento. Fanciulli rosei e paffutelli, fanciulli gai e clamorosi e saettanti come rondini, corridori come puledri in festa, caddero qua e là abbattuti dalla difterite, dal tifo, da uno dei tanti nemici del povero bipede planetario.
Rotte le file dal tumulto dell'amore, ci siamo dispersi per i prati e le foreste a caccia della voluttà, e ci siam riveduti alla stazione della virilità e ci siam contati una seconda volta. Non eravamo più che duecento.
Ed ora quanti siamo, dopo le battaglie dell'ambizione e della gerarchia sociale?
Forse trenta o quaranta.
E ci guardiamo commossi e trepidanti con un'aria di sorpresa, palpando le nostre carni, per sentire se davvero siamo ancora tra i vivi.
In tutto questo, direte voi, vi è più dolore che piacere. Io dico invece che vi è l'una cosa e l'altra insieme, e che non può dire di aver vissuto una vita piena e intiera chi non ha potuto raggiungere l'età dei lunghi ricordi; chi nel calice della vita non ha bevuto anche l'amaro eppur dolce nettare della malinconia.
La memoria di un lungo passato può avere talvolta l'amarezza della corteccia peruviana, ma com'essa ha pure l'azione tonica e corroborante; com'essa ha la virtù di guarire la febbre dei miasmi sociali e le nevralgie del secolo nevrosico.

E con i compagni del lungo viaggio ci hanno tenuto dietro anche le cose e queste hanno saputo vivere più degli uomini. Abbiamo ancora i papiri di Ercolano, mentre son già disperse le ceneri dei nostri nonni. Un foglio di carta ha vita più tenace delle carni di Ercole o del cervello di Goethe.
E quanti e quanti di quei fogli rinchiude la domestica biblioteca del vecchio! La prima lettera d'amore aperta con le mani tremanti, or son cinquant'anni; l'ultima lettera di nostra madre che porta ancora impresse le nostre lagrime.
Il primo diploma, che quarant'anni or sono, ci proclamava dottori, e l'ultimo articolo di giornale, che lodava con sentite parole un nostro libro.
Tutto un archivio, tutto un tesoro di affetti, di compiacenze deposto su quel fragile tessuto, che una vampata di fiamma può distruggere in un minuto, e che pure sanno serbarsi per secoli sempre vivi, sempre pieni di tutti i succhi, che vi distillavano il cervello e il cuore di cento generazioni.
Fortunato il vecchio che muore nella casa in cui è nato! Per lui quelle mura son quelle di un museo di reliquie, di una chiesa illuminata dalla fede.
Su quella soglia, sui gradini di quella scala posero i piedi i suoi padri, gli avi suoi, e nel cortile sempre verde egli ha tentato i passi vacillanti della prima infanzia. Ogni camera è per lui un tempio, in cui ricorda e fors'anche prega. In un certo corridoio oscuro rubò il primo bacio d'adolescente a una bella cuginetta e una certa cameretta oscura gli fu prigione nelle prime impertinenze d'una fanciullezza scapestrata. Risuonano ancora in quella casa la voce fioca della nonna, le ire paterne e le parole pietose della mamma, che implorano indulgenza dal babbo. Quanti morti ancor vivi passeggiano in quella casa, quante voci spente, non obbliate mai, ripetono al vecchio l'eco malinconico di tanti e tanti anni!
E fra quelle sante pareti quante reliquie, quanti monumenti, che non sono né di marmo, né di bronzo, ma sono imbevute del sangue di tante esistenze vissute con noi e per noi.
Sedie e tavoli e quadri e corone appassite di fiori son tutti benedetti dal dolore o dall'amore, tutti santificati dai grandi palpiti delle passioni umane che lasciarono da per tutto un alito del loro fiato, una lagrima dei loro pianti o un fremito delle loro voluttà.
Tutte quelle cose che non parlano ai profani e agli ignari, cantano e piangono e mormorano sommessamente parole ed inni e pianti, che il vecchio solo ascolta e intende e a cui egli risponde con altre lagrime, con altri sorrisi, con altre carezze.
Molti vivi son passati morti per la soglia di quella casa per non ritornarvi mai più; ma il custode di quel tempio è rimasto a custodire le reliquie del passato, a difenderle dall'obblio, ed egli stesso in un giorno non lontano ripasserà la stessa soglia, dopo avervi lasciato altre memorie ai superstiti; dopo avervi deposto voci e sorrisi, che i figli e i nipoti di lui custodiranno e difenderanno alla lor volta.
Se tutto questo è dolore, non v'ha uomo di cuore, che non voglia pianger queste lagrime, che non si senta orgoglioso di poterle piangere.
Capitolo Decimo: La paura della morte



Omnia mutantur, nihil interit.

GIORDANO BRUNO


Aimons la vie et ne craignons pas la mort.

CHEV. DE BOUFFLERS


Qui mortem non tirnet, magnum is sibi præsidium ad beatam vitam comparavit.

CICERONE

Non so se mai vi sia sulla terra un uomo solo (intendo intelligente e colto), che prima di morire non abbia dato una sua definizione di quel bipede implume, polimorfo e poliedrico, che ben più ricco di facce dell'antico Giano, mostrerà sempre fino alla fine dei secoli qualcosa di nuovo e di inaspettato a chi lo contempli o lo studi.
L'anatomico, il naturalista non lo possono definire che in una sola maniera; e contate le ossa e i denti e le viscere gli hanno già assegnato da un pezzo il suo posto gerarchico nel gran Museo degli esseri vivi planetari. Tutt'al più, secondo la scuola filosofica a cui appartiene il naturalista, metterà l'uomo un poco più vicino alla scimmia o un poco più accanto agli Dei; ma siccome gli Dei non sono che le scimmie degli uomini, la differenza di posto non viene poi ad esser molto grande.
La cosa cambia di molto, quando invece si vuol dare dell'uomo una definizione psicologica, umoristica o metafisica, filosofica o satirica. Allora tanti sono i ritratti, quanti sono i pennelli e quanti i colori di ciascuna tavolozza, e se potessimo raccogliere in una pubblica esposizione tutte quante le definizioni dell'uomo date dagli uomini di certo davanti a quei ritratti i visitatori potrebbero domandarsi quale strano serraglio di belve esotiche e nostrali vi sia colà riunito; tanto poco una faccia somiglierebbe all'altra.
Per conto mio, professore titolare di antropologia e ufficialmente obbligato a studiar l'uomo per di dentro e per di fuori, costretto ad analizzarlo col microscopio dell'analisi e a contemplarlo col telescopio della sintesi; oggi mando all'Esposizione dei ritratti dell'Homo sapiens questo mio acquerello:
L'uomo è l'animale brontolone per eccellenza.
E lo provo.
Il primo atto, con cui egli annunzia la sua comparsa in questo mondo è un guaito. L'uomo nasce piangendo.
E quando la natura lo costringe a firmare il suo atto di congedo dalla vita, piange o si lamenta.
E fra questi due punti estremi della partenza e dell'arrivo l'uomo si lamenta sempre e poi sempre; mutando solo il modo di lamentarsi.
Bambino guaisce o piange, fanciullo piange ancora; ma per di più comincia a lamentarsi, perché non è ancora un giovinetto.
E giovinetto sospira, perché non gli spuntano ancora sul labbro quei desiati peli, che gli diano diritto di baciar le rosee labbra d'una fanciulla.
E giovane sdegna di piangere, perché le lagrime son dei bambini; ma maledice la vita e commenta Schopenhauer, o si delizia sorbendo a centellini l'amaro calice delle divine poesie del Leopardi.
Adulto continua a non piangere, perché le lagrime sono una vergogna e una debolezza; ma invidia i non nati o i morti e rimpiange la beata e inconscia innocenza della fanciullezza e i caldi profumi della gioventù.
E vecchio torna a piangere come il bambino e si lamenta e maledice la vita e si guarda indietro, dolente di non aver saputo godere le gioie delle altre età; in sé riunendo tutte le forme del lamento e tutte le mimiche del dolore: dalle lagrime alla bestemmia, dal singhiozzo alla maledizione.
Dalla culla alla tomba tutto un lamento è la vita, e le tappe del nostro viaggio terrestre son segnate da tante stazioni, quante sono le forme del pianto.
Guaito senza lagrime.
Pianto con lagrime.
Pianto con singhiozzi.
Pugni stretti rivolti al cielo.
Urli e grida di dolore.
Rimpianti e malinconia.
Lagrime senili.
È dunque il ritratto più somigliante all'originale il mio e spero di averne un premio in una grande esposizione mondiale.
L'uomo è l'animale brontolone per eccellenza.
Se non che questo brontolamento non è sincero e non è che una pura, una abilissima civetteria della vita; un artifizio ingegnoso per farsi compassionare e attirare a sé la pietà degli altri e anche di se stessi.
E ve lo provo subito e facilmente.
Sì, la terra è la valle delle lagrime; sì, l'ideale umano è il nirvana; sì, l'homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis. Sì, ogni terra e ogni secolo ha i suoi Schopenhauer e i suoi Leopardi. Sì, la vita non è che il sogno d'un ombra; ma tutti questi bipedi brontoloni, che bestemmiano contro la vita dall'alba alla sera, temon la morte, e per quanto il suicidio cresca con la civiltà, pure è sempre rarissima eccezione.
Non solo l'uomo teme la morte, ma ancora la ritiene il massimo dei mali e l'ha in tale orrore, che ne ha fatto in ogni tempo la massima delle pene.
E dunque?
O la vita è un male e dobbiamo benedir la morte e desiderarla, come ogni buddista di buona fede.
Ola vita è un bene e allora cessiamo una buona volta di brontolare e asciughiamo queste lagrime ipocrite; cessiamo da questi lamenti falsi, per prender la vita a braccetto, come una buona e onesta compagna di viaggio.
Non sarebbe forse il mugolio umano contro la vita una delle forme più oscure e meno studiate dell'ingratitudine?
La paura della morte non è un sentimento umano ma animale, ma cosmico. È la ribellione d'ogni vita contro la distruzione; è il grido d'allarme di ciò che è contro ciò che non è. È l'orrore al vuoto, l'orrore vero, non quello che vedevano i nostri padri ignoranti nel barometro, prima del nostro Torricelli.
La pianta contro gli ardori del sole rallenta la traspirazione e contro le innondazioni delle piogge chiude i robinetti d'entrata.
La pianta mutilata medica le ferite e ogni pianta nasconde nella terra le radici dell'esistenza, così come nell'ovario corazza i germi dell'avvenire.
L'animale debole fugge, l'animale forte mette fuori i denti e gli artigli e i veleni: forme tutte della paura della morte.
L'uomo, che a volta a volta e secondo i casi è debolissimo e fortissimo, ora fugge ed ora morde, e chiama la viltà legittima difesa, e incoronando gli eroi, dimostra a se stesso, che la viltà è la regola e l'eroismo è l'eccezione.
Ma che più?
Lo stesso amore, la più ardente delle nostre passioni; l'amor materno, il più onnipotente degli affetti umani, non sono che l'orrore alla morte portato al di là della nostra vita. Amare non è che lottare con tutta la nostra energia, perché la fiaccola della vita riaccenda un'altra fiamma, innanzi che la nostra sia spenta.
E la vita è una maledizione?
E la morte è il solo contravveleno della vita?
No, bipede implume, tu non sei soltanto l'animale brontolone per eccellenza; sei anche l'animale ipocrita per eccellenza. Bradipo e gatto in una volta sola, piagnucolone e sornione. Sai pianger senza lagrime, e i mendicanti, che mostrano sulle strade pubbliche le loro false piaghe e le loro false sordità non sono che una povera e miserabile copia del l'esposizione mondiale delle disperazioni sociali, delle paralisi morali, dei lamenti monotoni e eterni dell'uomo, che bestemmia la vita, ma ha in orrore la morte. Tutti quanti falsi Giobbe e falsi Geremia, falsi pessimisti di una sterile e falsa filosofia!

Nei vecchi la paura della morte è più grave, è più insistente: talvolta è un'idea fissa, che getta delle ombre nere sopra ogni ora della vita, che accompagna ogni pensiero. Per moltissimi è il maggior tormento dell'ultima età.
Conobbi un vecchio arzillo, che non aveva a desiderare né una salute migliore né una borsa più fornita. Sarebbe stato felice, se non avesse avuto sempre fisso come un chiodo il timore della morte.
Io cercava un giorno di toglierli quel chiodo:
“Ma, caro signore, tutti dobbiamo morire e anche i più giovani possono morire, quando meno se l'aspettano.”
“Sì, sì, questo è vero; ma i giovani possono morire e i vecchi devono morire.”
E sospirava profondamente.
Anche i vecchi infelici, che dalla vita non possono aspettarsi né un fiore né un frutto, temono la morte; non perché con essa cessi la vita, ma perché sembra loro che l'agonia debba essere uno strazio senza nome, la massima delle torture.
Come medico dell'anima e del corpo io ho studiato questa paura e ho cercato i rimedi per combatterla. In me son riuscito a guardarla faccia a faccia senza timore: vorrei riuscirvi anche per i miei coetanei.
E a me sembra che questa viltà (chiamiamola col suo nome) non si possa vincere che in tre diverse maniere e cioé:
Con la fede,
Col non pensarci mai,
Con la lotta corpo a corpo.
Ognuno, secondo il proprio temperamento e le proprie forze può scegliere l'una o l'altra di queste vie.
Chi ha una fede sicura, incrollabile in un'altra vita, non ha bisogno dei miei consigli. Egli crede che la morte non sia che il passaggio ad un mondo migliore, in cui si godranno i frutti delle opere buone fatte in questa valle di lagrime, ed egli guarda questo passaggio non solo senza sgomento, ma con gioia.
Felice lui! Dopo aver goduto in terra è sicuro di godersi in eterno le beatitudini del paradiso; di rivedere i suoi cari, che lo hanno preceduto nell'estremo viaggio.
Ma quanti sono questi fortunatissimo mortali?
È difficile dirlo, perché non fu fatta ancora la statistica dei credenti, dei dubbiosi e dei miscredenti; ma io credo di non andar molto lunghi dal vero, affermando che sono l'uno per mille.
I più tra i credenti sono semicredenti; quelli cioé, che dopo aver combattuto lungamente fra le tradizioni religiose e la ragione demolitrice hanno messo al posto della fede un punto d'interrogazione.
Quel ? anche nella sua forma grafica rappresenta un'ancora: cioè il simbolo della speranza.
Essi non credono e non negano, ma sperano e il loro punto interrogativo è più o meno grande: tracciato a matita o scolpito nel bronzo: scritto con inchiostro indelebile o con inchiostro d'anilina, secondo che la loro speranza s'avvicina alla fede o se ne allontana.
Forme tutte dello scettico e fatalista Quien sabe deli Spagnoli, forme vaghe, incerte, crepuscolari del dubbio, che annuvola il cielo azzurro di più che mezza l'umanità.
Molti pensatori, fra i più onesti, interrogati sulla loro fede, crollano il capo ed alzano le spalle, dicendo:
La fede afferma troppo; la scienza nega troppo. La fede è troppo cieca ed io adoro i miei occhi. La scienza è troppo superba ed io odio la superbia, come il più goffo dei peccati mortali.
Dunque?
Dunque, io non credo, ma spero. La speranza è per i credenti una virtù teologale, per me è un conforto e un atto di modestia. Speriamo. Chi ha il coraggio di affermare brutalmente il nulla al di là della tomba si faccia innanzi e mi dica, come nacque il mondo e come finirà, mi dica se Newton credente sia meno grande di Voltaire miscredente, mi dica quando incominciò ad affermarsi l'Io e quando e come si distrugga, mi dica quanto differisca il sonno dalla morte e quanto si conosca la trasformazione delle forze, mi dica qual sia la proporzione numerica fra ciò che si sa e ciò che non si sa; e se costui risponde positivamente a tutte queste domande, io gli concederò il diritto di piantare al di là della fossa un cartello, su cui sia scritto: Nulla!
Ma se voi già da molti anni avete ucciso la fede con il pugnale della ragione o l'avete tanto assottigliata con la lima del dubbio, da non lasciarla che semiviva o semimorta, oh allora a combattere la paura della morte non ci rimane che l'uno o l'altro dei due mezzi, che vi ho indicati, all'infuori della fede.
Vediamo se e quanto valgano.
Il secondo mezzo è volgare e alla portata di tutti. Non esige senso mistico né dedizione del pensiero alla fede, non lotta, né coraggio, né studi profondi.
Ce lo insegna il bambino, quando chiude gli occhi davanti al pericolo; ce lo insegna il turco, quando, non potendo o non osando combattere il nemico, esclama rassegnato:
“Se sta scritto ch'io debba morire, inutile sarà la lotta ed io dovrò soccombere.”
Se il mezzo è volgare, non cessa però di essere umano, e siccome la morte è fatale e non v'ha ferrea volontà né luce di genio, che la possa cancellare dal libro della vita; così io la raccomando alla più parte dei vecchi d'intelligenza media, di coraggio medio, di media tacca in ogni cosa.
Quando vi si affaccia il pensiero della morte, scacciatelo subito, come fate di una mosca che vi secca, o di una zanzara che vi ronza all'intorno.
Pensate ad altro. Ricordate l'ora più lieta della vita, o la donna che più vi ha amato; ripensate un giorno di gloria o un viaggio fortunato.
E se l'ombra nera della morte v'interrompe il lieto ricordo, ricacciatelo nel vuoto, come fareste della mosca e della zanzara.
È una operazione di arte epicurea, di sana scienza della vita, che esige sulle prime un po' di pazienza e di fatica; ma che ogni giorno riesce più facile, finché diventa automatica e incosciente, come il suonare il pianoforte, come il parlare o il camminare.
Non è una lezione di egoismo, che voglio darvi, ma un consiglio di savio epicureismo.
Prima di scacciare il pensiero della morte, prima di cancellarlo per sempre dall'albo della nostra vita, dovete fare il vostro testamento, soddisfare ai vostri doveri di padre, di marito, di cittadino della grande repubblica umana; ma poi, pagati i debiti vostri con la società, avete il diritto e il dovere di pensare a voi, preparandovi un barometro che segni sempre: bello costante.
Peccato originale e non ancora scontato dal cristianesimo fu quello di santificare il dolore, facendone non solo l'ambiente necessario della vita, ma elevandolo alla santità di una virtù.
No! — L'ho scritto a ventidue anni, lo riscrivo a sessantadue. L'uomo è fatto per il piacere, e quando questo non offenda la gioia degli altri, è e deve essere lo scopo primo e più alto della vita.
Ogni morale, che non si fondi sul piacere, è falsa e deve cadere. La morale del dolore è cloralio, che addormenta e inganna; è una cambiale falsa, che non è scontata che dagli imbecilli. Fondata sopra una menzogna o un'illusione ci istilla nelle vene il virus dell'ipocrisia, e tutta quanta la società con le sue leggi, con la sua costituzione politica, con i suoi costumi si aggira in una nebbia oscura, che ci fa vedere ogni cosa sotto un falso aspetto, che ci impone false virtù.
Voi avete pagato tutti i vostri debiti sociali: per tutta la vostra vita avete lavorato per gli altri prima che per voi. Potete tener alta la testa davanti a tutti. Avete provveduto con il vostro testamento a che la giustizia sopravviva anche a voi.
Or bene, e chi vi obbliga ormai a tormentarvi col pensiero della morte? Nessuno.
E quel pensiero deve sparire dal nostro cervello, appena compare, con la stessa rapidità, con cui si chiude un otturatore fotografico di perfettissimo congegno; rimanendo invece sempre aperta l'anima vostra a ricevere i raggi del sole, i profumi dei fiori, le idealità del cuore e tutte quante le dolci e care tenerezze dei sentimenti umani, quando vibrano fra il desiderio e la voluttà.
Più d'una volta fui interrogato da qualche vecchio più vecchio di me:
E lei non pensa mai alla morte?
Mai! Io ci ho pensato un paio di volte, cioè quando feci il mio testamento e quando l'ho rifatto, per migliorarlo.
A che giova pensarci?
Penso alle cose, che posso fare e non fare; penso a ciò che dipende dalla mia volontà e che posso far meglio o far peggio; secondo lo studio e l'attenzione che vi avrò apportata. Penso alla felicità dei miei cari, fin dove il mio pensiero e il mio cuore possono avervi influenza; penso alle bellezze della natura e dell'arte, penso a tutto il pensabile, che può capire nella mia testa... ma alla morte non penso mai, perché verrà da sé, ch'io il voglia o nol voglia; non penso mai, prché è il più inutile dei pensieri e non servirebbe che a tormentarmi e a farmi soffrire.
Credetelo a me, che come medico del corpo e dell'anima, ho dovuto nella mia lunga vita medicar coscienze molte e molte piaghe. — I paurosi della morte, prima di morire, son morti almeno cento, almeno mille volte; dacché la natura provvida ci occulta quasi sempre l'ultima agonia; mentre la paura ce la porta innanzi intiera, spaventosa, terribile; per cui vivi moriamo, scontando cento e mille volte, innanzi l'ora suprema, le tremende torture della vita che se ne va, nolente, incresciosa, terrorizzata.

Degna delle anime forti è l'ultima via per cui si può sfuggire alla paura della morte, ed è la lotta corpo a corpo.
L'inevitabile e l'impossibile son cose che le nostre braccia non possono stringere, che le nostre forze non possono domare. Volerle abbattere o conquistare è puerile vanità o stoltezza senza nome.
A trent'anni noi tutti di mente sana e di cuore robusto dobbiamo aver fatto il bilancio della vita, dobbiamo aver scritto nella partita delle entrate le gioie possibili e in quella delle uscite i dolori inevitabili, non che molti dolori probabili; e dobbiamo aver adagiata fra quelle cifre la nostra attività, per modo che nessuna sorpresa ci assalga, nessun disinganno ci sorprenda.
Fra i dolori inevitabili, quello della morte, il più forte fra tutti, perché senza rimedio, perché spegnitoio d'ogni energia, d'ogni lavoro, d'ogni gioia.
Ma questa morte noi l'abbiamo guardata faccia a faccia, senza trepidazione, senza paura.
Noi l'abbiamo veduta, non come flagello vendicatore d'un immaginario peccato di Adamo ma come legge cosmica, che impera su tutti gli esseri vivi, dall'ameba all'uomo. L'abbiamo veduta come la sola giustissima fra tutte le giustizie della natura, come la severa livellatrice di infusori e di belve, di abeti e di borracine, di re e di proletari, di geni e di idioti.
E chinando il capo davanti a quella eterna e suprema trionfatrice, che proibisce la superbia ad ogni creatura viva, che sommerge ad ogni minuto le esistenze tutte dei moscerini e degli uomini nel grande oceano della vita cosmica, per rinnovellarle e restituirle rifatte e ringiovanite alla sponda dove sempre sboccia un fiore e germoglia una creatura, abbiam detto:
Ben venga anche la mia morte, quella che mi fa fratello d'ogni cosa viva e che fa palpitare anche in me le pulsazioni della vita planetaria; ben venga l'ora della restituzione a chi tanto mi ha dato. Di me non sparirà che la forma; non la materia che è eterna, non la forza che la segue eternamente compagna. Del mio pensiero, della mia materia vivranno i miei posteri, così come io ho vissuto della materia e del pensiero dei miei avi.
La morte non è distruzione, ma rinnovamento, la morte non è putredine, ma purificazione. La morte è il sonno che vien dopo il lavoro; la morte è la pausa del cuore nel tic-tac eterno del pendolo dei mondi.
La morte non mi fa paura; l'accetto come ho accettato la vita. Essa mi troverà pronto a riceverla, senza un sospiro di dolore, senza un tremito di paura.
Capitolo Undicesimo: Storia di due vecchi felici



Nihil est otiosa senectute jucundius.
CICERONE
Fra i molti amici, che la fortuna mi ha dati, ne conto due, che visito spesso e con crescente amore, perché la loro conversazione mi rallegra e mi insegna; ed io li considero come due miei grandi maestri nell'arte difficilissima della vita.
Vivono in due altitudini molto diverse della gerarchia sociale, ma quanto a felicità sono alla stessa latitudine.
Se avessi la loro fotografia, ve la presenterei come ornamento del mio modesto libricino e come delizia ai vostri occhi. Nei loro lineamenti riposati, sereni, tranquilli, nel loro sorriso divenuto temperamento, voi vedreste il ritratto di due uomini felici. Eppure il ricco ha ottantadue anni, il povero ne ha ottantotto. Non so quanti altri anni potranno aggiungere a quelli che hanno oggi; di questo soltanto sono sicurissimo: che cioè la loro felicità durerà quanto la loro vita.
Non potendo presentarvi la loro fotografia, cercherò di tracciarvene a grandi tratti i lineamenti, con quel povero strumento d'arte che è la penna, e che pur troppo è il solo ch'io sappia maneggiare.


Ipsilonne

Se leggete i miei libri, conoscete già uno di questi due vecchi felici, perché io ho raccontato un episodio glorioso della sua vita nel mio Testa.
Ora però devo presentarvene il ritratto.
Ipsilonne ha le gambe poco diritte, ma ciò non gli impedisce di camminare speditamente, né gli ha mai impedito di fare il pescatore sino ad oggi.
È di giusta statura, asciutto di carni e quasi magro. Ha ancora molti capelli e qualche dente e soprattutto uno stomaco di ferro, che gli permette di digerire ogni cosa e perfino il caciucco, il formaggio pecorino e i polipi lessi e messi in insalata.
Sua delizia gastronomica sono i peperoni, dei quali preferisce i più forti e quelli che contendono al corallo le tinte più porporine. Nessun regalo più gradito posso fargli di una dozzina di quei peperoni di Ceilan o di Spagna, che coltivo con tanto amore nella mia Serenella, per diletto dei miei occhi e per farne dono agli amici miei, amanti degli aromi piccanti.
Egli chiama nel suo dialetto pevron quei bei corni di porpora e li accarezza con le mani callose e li nasconde nella sua vecchia giacca, col gesto comico dell'avaro, che nasconde il proprio tesoro.
Fino a questi ultimi anni ha fatto il pescatore e il barcaiuolo, ma ora ha raggiunto il colmo della felicità, vivendo di rendita.
Una rendita che a un signore non basterebbe per una settimana, ma a lui basta per tutto l'anno. Una rendita, che gli è doppiamente cara, perché è il frutto di una vita intera dedicata al lavoro e alle opere buone e frutto della riconoscenza che ha seminato vivendo.
Che bella e gioconda cosa è la spiga, seminata da noi, coltivata col nostro sudore e che ci rammenta il bene che abbiamo fatto noi, e il bene che ci vogliono gli altri. Chi non ha mangiato di questo pane, veramente eucaristico, non ha conosciuto una delle gioie più alte concesse all'uomo. Pane eucaristico, perché in esso è nascosto un Dio: il Dio del bene.
La rendita di cui gode Ipsilonne consta di due cespiti, come direbbe un burocratico della finanza.
Il primo è una pensioncina che gli feci aver io dal Depretis e che il Crispi aumentò e rese vitalizia. È il premio che il Governo italiano gli ha concesso, per aver salvato la vita di Garibaldi con pericolo della sua. E questo è il premio di un atto eroico, è il premio dato dalla patria a un suo cittadino.
L'altro cespite è il tributo di un suo figliuolo, che in America onora il nome italiano con l'onesto commercio. È il ricorso di un santo affetto, che l'Oceano non ha fatto naufragare, ma ha raddoppiato. Un vecchio padre può ricevere senza rossore da un figlio a cui diede la vita e che iniziò all'onestà sicura, al lavoro costante.
Ed ecco come Ipsilonne vive di rendita e non maneggia più le reti e il remo che come dilettante.
Quand'egli il mattino ha preso il caffè, preparato amorosamente dalle mani di una sua figliuola, mette in bocca una cicca e va sulla spiaggia dove tra i battelli in riparazione e le paranze tirate sulla riva, tengon convegno sulla molle arena i bambini e i vecchi; la poesia e la gloria della famiglia umana. I primi giuocano, gli altri fumano o ciccano, e fumando o ciccando, ruminano deliziosamente le care memorie di una lunga vita.
Ipsilonne è il decano di tutti quei veterani della vita e l'aver salvato la vita a Garibaldi mette intorno al suo capo come un'aureola di santo.
Io l'ho veduto tante volte nelle giornate fresche dell'inverno distendersi voluttuosamente sulla tiepida arena e beversi tutta quella delizia di sole, con un'intensa attenzione epicurea; mentre il suo sguardo si perdeva nell'orizzonte di quel mare sempre azzurro e di cui egli conosce da quasi novant'anni le bellezze e le ire, gli scherzi e gli sdegni.
Quanta felicità in quella creatura povera e vecchia!
Spesso lo vedevo con la sinistra smuovere dall'una all'altra guancia la sua cicca pizzicante e poi accarezzarsi il mento più volte, come chi è contento di vivere e trova che la vita è una bella e buona cosa, quando non vi si mescono i veleni dell'odio e gli assenzi della vanità offesa.
Io ho invidiato spesso le lucertole, quando appianando le quattro zampine sulla sabbia ardente, nel pieno del sole, la toccano con la pancia beata, bevendo tutto quel calore e tutta quella luce, con gli occhi socchiusi per la troppa voluttà. Ma la lucertola umana è ancor più felice, perché uomo e perché pensa e raccoglie nel molle letargo di una sonnolenza meditabonda tutte le memorie del passato e tutta la coscienza di un presente felice; senza rimpianti, senza desideri e senza noia.
Chi non può esporsi al sole senza un ombrellino o senza un'emicrania, insulta suo padre, il padre di tutti, ed io lo compiango come un povero infermo.
Chi non ha saputo godersi le delizie inenarrabili di una lucertola, sdraiata sull'arena calda di una spiaggia, è un mezz'uomo, è un invalido, che io compatisco.
Quando Ipsilonne è stanco di far la lucertola, parla coi suoi coetanei del passato e del presente, avendo sempre qualche nuovo aneddoto di pesca o di marina da narrare. Ha raccontato già cento volte la sua impresa garibaldina, ma vi è sempre chi l'ha dimenticata o per cortesia speciale finge di averla scordata.
Dalla conversazione con i vecchi passa a giuocare con i piccini. I vecchi e i bambini in tutti i tempi si son sempre intesi e hanno sempre goduto della reciproca compagnia. Dandosi la mano, essi chiudono quel circolo in cui si muove e si agita tutta la grande famiglia umana. Essi sono il principio e il fine delle cose; e come col riunire i due opposti elettrodi scocca la scintilla elettrica, così il vecchio, dando la mano al bambino, ristabilisce l'equilibrio delle opposte forze, e ciò che fu feconda e ciò che sarà. Il bambino che bacia il vecchio forma uno dei quadri più umani, più divinamente umani che ci porge la vita. È tutta la storia in ciò che ha di più bello e di più caro.
E i bambini di San Terenzo conoscono il loro vecchio, che li accarezza, che dà loro un frutto o una tiratina d'orecchi e con cui scherzano e giuocano volentieri.
Le ore dei pasti suonano sempre un po' tardi per il nostro Ipsilonne, perché ha sempre appetito ed è sempre sicuro di trovare ottimo il vino e squisita la vivanda.
E giunto alla sera, senza essersi mai annoiato, giuoca la sua partita a tresette, ridendo, schiamazzando e riscaldandosi come un giovanotto alle vicende della fortuna o agli errori del compagno.
Egli ha anche un piccolo mondo soprannaturale, che consiste nella messa, cui ascolta ogni domenica, e nella comunione che fa ogni Pasqua. Non ha mai discusso la propria religione, né l'ha mai lasciata mettere in canzonatura. È questa per lui una bandita, in cui nessuno deve mai penetrare. Dio per lui è l'indiscutibile, l'assoluto, è il dogma che non si può mettere in dubbio, perché è quello che è e perché suo padre, suo nonno, e suo bisnonno sono stati cristiani e cattolici, come lui.
Anche la morte è un altro dogma, che non si discute; ma egli non la teme. Quando qualcuno gli augura di toccare il secolo, risponde sempre a una maniera, crollando il capo e sorridendo:
“Sarà quel che sarà”, dice egli “tanto pensarci e non pensarci è lo stesso. Quando il frutto sarà maturo, cadrà da sé e la morte lo raccoglierà. Per ora sento di esser ancora acerbo. Anche scrollando l'albero, il frutto non può cadere...”


B. de B.

Ha ottantadue anni, ma è bello ancora.
Porta sul petto e sulle spalle una vera Via crucis di cavalierati, di commende e di gran cordoni ma cammina sempre diritto e con disinvolta agilità.
Ha tutti i suoi capelli, né si vergogna di averli bianchi, di una bianchezza argentina tanto bella che mi fa sempre pensare perché Dio non abbia dato ai giovani le chiome bianche, riservando ai vecchi il colore triste del lutto.
I suoi baffi e il suo pizzo son molto grigi, quasi bianchi come i capelli; ma impiantati bene, come arbusti vigorosi, ben nutriti e ben coltivati.
Della vecchiaia due sole magagne, l'orecchio un po' duro e le mani un po' tremule; come chi dicesse due nei in una bella faccia, due macchie nel sole.
Della sordità non si accorge, perché con lui cortesissimi sempre gli amici hanno la cortesia di alzare un po' la voce; e al tremito venuto a poco a poco non ci bada, perché non gli impedisce né di scrivere, né di suonare il pianoforte.
Mangia con appetito, e digerisce tutto ciò che mangia; dorme tranquillamente; passeggia, e nelle feste di famiglia, quando non è al pianoforte, fa ancora qualche giro di valzer, scegliendo la signora più bella o la signorina più desiderata.
Nessuno al mondo è senza vizi e anche il mio commendatore ha i suoi: fuma dei Virginia e ne fuma troppi; beve dei cognacchini e ne beve troppi; ma quando io lo rimprovero, mi ride in faccia, dicendomi: ne ho sempre bevuto e vedete che non mi hanno fatto troppo male.
Ed io devo tacere e chinare il capo.
Questo bel vecchio è stato sempre bellissimo, attraversando la vita con tutte la varie bellezze della infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza e dell'età matura ed ora ha le bellezze della vecchiaia: le più rare, non le ultime.
Alla bellezza ha sempre avuto compagni la grazia e lo spirito; per cui egli è molto piaciuto alle donne e queste, naturalmente, son sempre piaciute molto a lui. Da questo accordo perfetto nacque un'armonia di note deliziose, che come una dolce e cara musica del cuore ha accompagnato sempre il mio commendatore.
Ebbe rare fortune, ma non fu mai libertino. In amore guarò sempre in alto, serbandosi gentiluomo con tutte, né mai portando in piazza i propri amori. È questo il vero modo di non sciupar la salute e di non perder mai la stima di se stesso.
E così la simpatia delle belle signore lo ha accompagnato sempre, e anche oggi ho ragione di credere, che Eva non è del tutto morta per lui. Se in amore non è più un artista di cartello, è però sempre un buon dilettante.
Ha viaggiato molto, ha occupato alti posti nella vita consolare e nei negozi delle banche fortunatissimo; per cui poté farsi da sé un'eccellente posizione nella gerarchia del denaro.
E la adoperò per raccogliere con intelletto d'amore un vero museo di arti belle e di rare curiosità, che lascia aperto a tutti e di cui per tanti anni fu egli stesso espositore e cicerone.
Amantissimo della buona società, aprì le sue sale a lieti conviti e a feste splendidissime, raccogliendo il meglio e l'ottimo della città in cui si era stabilito.
Caritatevole e facile soccorritore d'ogni sventura, porse aiuti anche alla scienza: di qui le molte e alte onoreficienze, di cui fu sempre vago e che gli ornano il petto nei dì solenni.
Adora la musica, nella quale è qualcosa più di un dilettante; e non solo interpreta mirabilmente le armonie dei grandi maestri ma egli stesso compone e può godere di udir eseguite dalle sue mani armonie e melodie create da lui.
In tutte le questioni controverse della politica, della religione, della morale egli ha sempre saputo tenersi lontano dagli eccessi; fossero poi di fanatismi o di sprezzi, di rivoluzione o di reazione. Credo che quella preziosa e rara lampada del buon senso non gli sia mai caduta di mano per cui, mutando paesi e costumi e mutando tutte le cose intorno a lui, egli è sempre rimasto lo stesso gentiluomo, lo stesso galantuomo, lo stesso uomo felice.
Ma la sua felicità è ancor più singolare, perché ha saputo resistere alla sventura. Molti sono felici, non per merito proprio, ma per merito della fortuna, che ha soffiato sempre in poppa sulla loro navicella.
Il mio commendatore invece, proprio negli ultimi anni della sua vita, quando più si ha bisogno di onde tranquille e di cielo sereno, vide travolta la sua barca da una formidabile bufera. Gravi disastri bancari gli portarono via più di due terzi della propria fortuna: per lui abituato da più di mezzo secolo alla ricchezza era una vera miseria.
Chi sa quanti altri si sarebbero gettati nell'abisso, rinunziando alla vita, chi sa quanti naufraghi in tanta procella! Egli invece raccolse le vele, si guardò intorno, e con la calma che non dà che la forza, si privò del suo Museo, dell'amico suo di cinquant'anni, e si rassegnò ad una nuova e modesta posizione, senza maledire, senza imprecare, senza piangere.
Egli si mostrò grande davvero, perché il rimaner felici in certi casi della vita è virtù, è quasi eroismo.
Il mio commendatore aveva raccolto in sé troppi tesori morali, per poter soccombere al naufragio del denaro. Egli rimase felice anche senza il denaro, prova di grandissima superiorità, di una grande altezza morale.
A lui son rimasti la salute, il fido affetto di una bella e dolce compagna; a lui la stima degli amici, le dolcezze della musica, la lettura dei libri prediletti; a lui l'appetito fedele e il sonno tranquillo, l'agilità dei muscoli e l'allegria costante.
Perché non sarebbe egli ancora felice?
Ed egli lo è, dando a tutti un'alta e grande lezione nel l'arte di vivere; di viver felici a ottantadue anni, senza egoismo, senza bassezze e senza una grande fortuna.

Capitolo Dodicesimo: Il codice della vecchiaia / Igiene fisica — Igiene morale



Amplectenda est et amanda senectus, plena est voluptatis, si illa scias uti. Gratissima sunt poma quum fugiunt. Deditos vino potatio extrema delectat. Quod in se iucundissimum hominis voluptas habet in finem sui differt.

SENECA


Aforismi e pensieri.
1.

Ogni vecchio sano dovrebbe far mettere in un quadro queste sante parole del dottor Reveillé Parise, che ci ha dato un bellissimo libro sulla vecchiaia.
Valutare le forze che rimangono, eccitarle e sostenerle con arte, onde godere della vita il più possibile, il meglio possibile e il più a lungo possibile.
A raggiungere questo fine valgono questi quattro precetti:
Saper essere vecchio.
Conoscer perfettamente se stesso.
Disporre e regolare convenientemente le abitudini della vita.
Combattere ogni malattia dal suo principio.

2.

Fate il vecchio di buon'ora se volete farlo lungamente.

3.

Anche se siete sani e robusti, anche se l'amore vi serba ancora de' fiori, dichiaratevi vecchi a sessant'anni.
4.

La decrepitezza è una forma morbosa della vecchiaia: il vecchio sano muore senz'esser mai stato decrepito.

5.

Il vecchio deve lavorare sempre un poco; non far mai un solo sforzo.

6.

In ordine di pericolo si schierano in questo modo le fatiche del vecchio:
Le amorose.
Le muscolari.
Le intellettuali.

7.

Nemico tremendo della vecchiaia è il freddo.

8.

Nemico non meno terribile è il mutamento di clima e di abitudini.

9.

Temete il freddo umido: tenete i piedi caldi, imperciocché vi dico che il catarro ha ucciso più vecchi di quello che il cannone abbia massacrato soldati.

10.

I vecchi dovrebbero viver sempre in campagna, e anche in città badare moltissimo alla purezza dell'aria che respirano. L'aria pura, tonica, calda e secca è un vero elisir di lunga vita.

11.

In Italia, credo Bordighera l'ottima fra le stazioni per l'uomo vecchio.

12.

Il vecchio non deve mai escir di casa nei giorni più freddi dell'inverno perché la pneumonite è uno degli assassini più feroci degli uomini vecchi.

13.

Nessun vecchio (fosse egli il più bigotto degli uomini) deve mangiar di magro.
Anche Erasmo nei suoi ultimi anni aveva ottenuto la dispensa dal papa, perché egli diceva, di avere l'anima cattolica, ma lo stomaco protestante.

14.

I vecchi devono mangiar pochissimo e il loro cibo deve esser sempre di facile digestione.

15.

Il vino è il balsamo della vecchiaia. Lo hanno detto i proverbi di tutte le nazioni, lo hanno proclamato i medici d'ogni tempo e Galeno lasciò scritto:
Sane vinum pueris est alienissimum, ita senibus aptissimum.

16.

Il vino conviene meglio ai vecchi magri e di polsi deboli, che agli obesi e a quelli che hanno tendenza alle congestioni cerebrali.

17.

Non mai bagni freddi, se non ordinati dal medico o usati da lungo tempo.

18.

Mantenete attiva la circolazione capillare della pelle, facendosi mattina e sera frizioni per tutto il corpo con una spazzola, né troppo molle, né troppo dura.

19.

Due volte alla settimana fatevi fare un massaggio generale.

20.

Nell'inverno e nel sommo dell'estate potete ripetere il massaggio anche tre o quattro volte per settimana.

21.

Nessun giorno senza una piccola passeggiata e senza un breve lavoro intellettuale.

22.

Non prolungate mai il sonno artificialmente con calmanti delle farmacie. I vecchi hanno piccolissimo bisogno di dormire.

23.

Combattete la veglia troppo ostinata, facendo un po' più di moto e bevendo un bicchiere di latte prima di andare a letto.
Se non siete pletorico, potete senza pericolo aggiungere al latte un cucchiaino di vecchio cognac.

24.

Non imitate mai le abitudini di altri vecchi, ma fatevene di proprie calcate sopra la perfetta conoscenza di voi stessi.

25.

Il vecchio sano si alza molto presto e si corica molto presto.
Se è molto debole si alza molto tardi e va a letto molto presto.
Anche nella giornata sta lungamente sdraiato, per riposare il cuore e per facilitare la circolazione venosa delle gambe, che spesso hanno vene varicose.

26.

Il vecchio sano, appena alzato, prende una tazza di cioccolatte al latte o all'acqua, secondo i propri gusti e secondo l'appetito: lo prende solo o in compagnia di un crostin di pane o di un biscotto.

27.

All'infuori di questa piccola colazione, il vecchio non mangia che due volte al giorno, cioè dal mezzogiorno al tocco e fra le cinque e le sette secondo i gusti e le abitudini.

28.

Il pasto del mezzogiorno deve essere il più forte, leggerissimo quello della sera.

29.

Ogni pasto deve essere accompagnato da acqua pura sul principio e il vino non deve beversi che sulla fine.

30.

Per pasteggiare ottimo vino è il Chianti di due a quattro anni, o il Bordeaux leggero od anche il Borgogna.
Con la frutta potete bere un bicchiere di Gattinara, o di Ghemme, o di Sizzano stravecchio.
Nei casi di grande debolezza o di vecchiaia estrema sostituite a questi tre nettari del Piemonte un bicchiere di Oporto vecchissimo.

31.

Nessun liquore — mai! — Né vermutte prima del pranzo, né chartreuse né benedectine dopo pranzo.

32.

Il caffè o il tè può prendersi una o due volte al giorno, quando non produce la veglia o non eccita soverchiamente i nervi.

33.

Per rispetto agli eccitanti ognuno deve governarsi da sé. Ai vecchi l'esperienza non può mancare davvero, e se il grande Zimermann diceva, che a trent'anni ogni uomo deve essere medico di se stesso, figuratevi come non lo debba essere a sessanta e settanta.

34.

Se avete fumato per tutta la vostra vita, non lasciate di fumare anche da vecchi; ma fumate meno e tabacco meno forte.

35.

Una cena eccellente consiste in un po' di carne fredda e una buona insalata di lattuga, che ha anche il merito di conciliare il sonno.

36.

Fate pure una buona siesta dopo il primo pasto e sonnecchiate pure sulla poltrona dopo il secondo, prima di andare a letto.

37.

A letto abbiate sempre molte coperte e soprattutto tenete bene caldi i piedi.
Nell'inverno la camera da letto sia sempre tiepida, nell'estate sempre fresca, non temendo mai di tener aperti i vetri e chiuse le persiane.

38.

Quando la tristezza vuol far capolino sul vostro orizzonte, bevete un bicchierino di vino di più, fregatevi le mani e canticchiate a bassa voce questa giaculatoria:
Oggi è il giorno più giovane che mi rimane a godere. E quanti vorrebbero giungere dov'io son giunto!

39.

Nella vecchiaia i conti con l'amore, con l'amicizia, con l'ambizione devono essere già tutti saldati.
Non apritene mai di nuovi.

40.

Non pensate mai all'avvenire e rivivete nel vostro passato.
Quanto al presente, considerate ogni giorno come un regalo squisito della provvidenza.

41.

Fate vostra la felicità degli altri. Nella vostra compagna, nei vostri figli, nei vostri nipoti vi è tanta parte del vostro sangue, della vostra vita; e la loro gioia è e deve essere gioia vostra.

42.

Il poter dir sempre, ogni giorno, fino all'estrema vecchiezza: io posso ancora giovare a qualcheduno, è tale la contentezza intima e serena, che basta da sola a farci benedire la vita.

43.

Quand'ero giovane, m'avevo fatto una bella e ricca armeria, che era uno dei più cari e dei più belli ornamenti della mia casa. Avevo una splendida collezione di sdegni, di collere, di ire; avevo un assortimento di impeti subitanei, di rancori e di risentimenti; ma con i primi capelli bianchi ho ricominciato a vendere ora uno sdegno ed ora un rancore, cambiandoli in libri e in fiori.
Oggi che son vecchio ho venduto tutta quanta la mia armeria, e mi son provvisto di una grande quantità di indulgenza, che è come chi dicesse una flanella, che ci difende dai reumatismi del cuore e dalle nevralgie del pensiero.
Consiglio a voi tutti di fare altrettanto.
Ai giovani la lotta, anche se fiera e tenace; ai vecchi l'indulgenza per gli uomini e per le cose.
Ai giovani abbattere i nemici del bene e del vero; ai giovani combattere per il trionfo del progresso, della libertà, della giustizia.
Ai vecchi medicare le ferite dei caduti, siano poi d'una parte o dell'altra.
Ai giovani la fede, che apre gli orizzonti dell'avvenire; ai vecchi la carità che calma il dolore da qualunque parte venga, che medica i feriti e seppellisce i morti.
Ogni umana famiglia è fatta da un uomo e da una donna, e dove manca o l'uno o l'altro di questi due grandi fattori, l'organismo della famiglia zoppica e s'inferma.
E così è di quell'altra più grande famiglia che è una società umana. In questa devono esservi i giovani e i vecchi. Senza quelli manca il cuore e mancan le braccia; senza questi vien meno il cervello e mancano i freni.
Alla grande opera della generazione occorrono un Adamo e una Eva. All'opera grandissima della civiltà occorrono giovani e vecchi; i due sessi del mondo che pensa, del mondo che lotta.
Capitolo Tredicesimo: Il gerocomio



... et comme l'automne aura conservé la chaleur de l'été, l'hiver conservera la douceur de l'automne.

CHEV. DE BOUFFLERS
S'io fossi milionario, dedicherei gli ultimi anni della mia vita a realizzare un progetto, che non è per me di quest'oggi, ma di molti anni e che ho accarezzato lungamente nelle ore serene della meditazione.
Attraverserei l'Oceano, e sbarcato a Nuova York studierei ben bene i diversi climi degli Stati Uniti per trovarvi una plaga fortunata, dove fondare il gerocomio.
E se anche non mi rimanesse che il tempo di mettere la prima pietra e di vedere rizzare le prime mura, morrei contento di non esser vissuto invano.
Il gerocomio dovrebbe essere la casa dei vecchi agiati e ricchi, che non avendo una famiglia, voglion passare allegramente gli ultimi anni della loro vita.
In tutti i paesi civili abbiamo ospizi per i vecchi poveri invalidi al lavoro e ai quali diamo un letto e quanto basta di pane per non morire.
Ma non abbiamo una casa per i vecchi ricchi, che spesso sono più infelici dei poveri, privi dell'affetto vigile e fido di una compagna, e guardati ad occhio da servi o da nipoti, che ne desiderano e ne aspettano con ansia impaziente la morte.
Questa lacuna della nostra civiltà sarà di certo riempita ed io vorrei avere l'ambizione soltanto di averne suggerito l'idea a qualche miliardario americano; faccia poi il gerocomio per filantropia o per trovarvi una nuova fonte d'industria.
E il mio gerocomio, chi sa che col tempo non diventi una geropoli, la città dei vecchi.

Il gerocomio deve fondarsi in un paese d'aria mite e asciutta e di temperatura possibilmente uniforme. Negli Stati Uniti abbiamo tutti i climi del mondo e non sarà molto difficile trovare il luogo più opportuno per attuare il mio progetto.
Un gran parco con giardini immensi deve circondare il palazzo centrale, e molte casette devono esser sparse fra gli alberi, di diverse grandezze e di lusso diverso, per adattarsi ai gusti vari e alle varie fortune dei miei clienti. Son destinate a tutti quelli che non amano fare vita comune nel palazzo centrale, dove però possono recarsi liberamente per godervi tutti i divertimenti e i giuochi, che vi si danno e vi si fanno.
L'orario dei pasti, la distribuzione delle occupazioni, tutto l'andamento del gerocomio son fissati da una commissione degli inquilini nominata da questi a maggioranza di voti.
Questa Commissione forma un vero Consiglio, che si rinnova ogni anno, ma può essere rieletto.
All'infuori di questo corpo direttivo vi è un Direttore Capo, che deve essere medico e psicologo, il quale ha diritto di veto in tutte quelle disposizioni del Consiglio che potessero nuocere alla salute e alla felicità degli abitanti del gerocomio.
Il medico direttore è assistito da tre medici specialisti, che hanno studiato specialmente le malattie dei vecchi e che fanno vita comune con i loro clienti, dei quali studiano, senza importunarli, il temperamento, le abitudini, le magagne.
Non sono ammessi nel gerocomio né i pazzi, né i paralitici, né i malati di affezioni ributtanti.
Il gerocomio non è un ospedale, ma un palazzo per i vecchi sani, che vogliono finire allegramente i loro giorni.
Vi regna la più assoluta libertà religiosa e morale, e purché non si offendano i costumi o il pudore, ognuno è padrone di fare quel che vuole.
Una cappella cattolica, una protestante, una sinagoga, una moschea accolgono i credenti delle singole religioni.
L'igiene è regolata dal Direttore Capo, come la più importante, perché senza salute non vi può essere felicità; e i cibi e le bevande e le ore dei pasti son fissati con tutta la sapienza di chi ha studiato la fisiologia della vecchiaia.
Così è pure il cibo dell'anima.
Una ricchissima biblioteca ha raccolto i capolavori delle più note letterature e specialmente i libri gai, ottimisti, piacevoli.
I giornali di tutto il mondo, le migliori riviste tengono al corrente delle vicende politiche e del movimento letterario.
Lo sport più variato offre cavalli, carrozze, giuochi d'ogni sorta, onde conservare al possibile l'agilità alle membra rigide, la forza ai muscoli stanchi.
È nelle abitudini del gerocomio il fare dei bagni turchi e sottoporsi spesso al massaggio generale.
Ogni giorno i miei clienti con la prima colazione ricevono un bollettino dei divertimenti della giornata, redatti dal Consiglio presieduto dal Direttore.
Quando nel programma figurano partite di caccia o di pesca o scarrozzate chi vuol prendervi parte dà in nota il proprio nome, onde tutto sia pronto all'ora fissata.
Il gerocomio ha nel suo vasto territorio un lago, delle foreste quasi vergini, dei fiumi, dei prati; tutto ciò che si presta alle più svariate forme dello sport, dei giuochi e degli esercizi ad aria aperta.
Gli abitanti del gerocomio possono giuocare tra di loro; ma non vi è una sala da giuoco; né i proprietari o direttori vi prendono parte.
Tutti quanti i servi sono di sesso debole, cioè giovani e belle fanciulle, prese da tutte le nazioni del mondo, e che rallegrano con la loro bellezza e le loro grazie i miei clienti.
La musica parla e tace a volontà in tutte le sue forme più svariate, dal concerto ai quartetti, dall'opera eseguita dai migliori artisti fino all'esercizio di qualunque strumento fatto in camera dai singoli dilettanti.
I pasti in comune son sempre rallegrati da mille fiori posti sulla tavola e da una musica allegra, di cui non si vedono gli esecutori.
Quando venti persone domandano per iscritto al Direttore una festa speciale o qualunque divertimento immaginato da esse possono ottenerlo, quando non sia contrario alla salute o ai costumi.
Così pure se un oratore vuol fare una o più conferenze, previo avviso dato alla Direzione, trova una sala e degli uditori.
Il Direttore conferirà ogni mese una medaglia d'oro o d'argento al vecchio che ha immaginato un nuovo divertimento, una nuova invenzione, che rallegri gli ospiti del gerocomio.
La medaglia costituisce l'Ordine della vecchiaia felice, che si accorda dai clienti a maggioranza di voti e a voto segreto.
Nel gerocomio sono ammessi i cittadini di tutto il mondo, d'ambo i sessi; purché abbiano compiuto il sessantesimo anno e non abbiano macchia alcuna sul libro dell'onore.
Le signore non hanno abitazioni speciali, se non quando la domandano.
In caso diverso hanno il loro alloggio in comune nel palazzo centrale, ognuna s'intende nella propria camera.
Al 31 dicembre tutti gli ospiti del gerocomio tengono un'assemblea generale per nominare il Direttore del Giornale della vecchiaia felice, che deve per tutto l'anno seguente redigerlo, aiutato da una commissione di collaboratori e di collaboratrici.
Questo giornale dà conto di quanto avviene nella gran casa dei vecchi, pubblica i programmi delle feste, dei divertimenti e dà un brevissimo e succoso riassunto delle notizie politiche di tutto il mondo.
Vi sono nel gerocomio lettori o lettrici addetti alla Biblioteca e che fanno la lettura ad alta voce per tutti quei vecchi, che per debolezza della vista o per altro difetto non possono leggere da sé.
La disciplina del gerocomio ammette come gran colpa la tristezza e quando un ospite si mostra malinconico e si dichiara infelice vien accusato al tribunale supremo costituito dal Consiglio presieduto dal Direttore, e sentite le sue difese, si provvede con mezzi straordinari al suo ravvedimento, cioè al ritorno all'allegria, che deve essere il pane quotidiano di tutti.
Opportune modificazioni del regime della cucina e specialmente della cantina, speciali letture, riescono sempre a guarire i miei clienti meno fortunati.
La morte di un cliente non è conosciuta che dai medici, né mai annunziata nel giornale del gerocomio. Si ignora da tutti dove sia il cimitero, o se il cliente scomparso abbia restituito il suo corpo alla patria lontana.
Quando i medici riuniti in consulto hanno trovato incurabile la malattia, non si occupano che di togliere ogni dolore e di occultare il momento fatale alla coscienza del morente.
Nei vecchi sani e robusti è la natura stessa, che compie questa pietosa missione. Dove essa non basti, soccorre l'arte; e nessuno dei vecchi abitanti del gerocomio passa dalla vita alla morte attraverso l'agonia.
Questa è proibita, come proibite sono la tristezza, lo scoraggiamento, la malinconia.
L'arte di ben morire fu insegnata nei tempi passati dalla fede.
Domani e sempre deve essere appresa dalla scienza umana, che ha per compito supremo di abolire il dolore dalle nostre sensazioni.

Appendice



In appendice all'elogio tutto moderno della vecchiezza, l'editore crede utile il riprodurre un elogio antico, il famoso De Senectute di Cicerone. Quest'opera fu scritta quarantaquattro anni prima di Cristo, vale a dire diciannove secoli fa.

IL CATONE MAGGIORE - DI MARCO TULLIO CICERONE - OVVERO DIALOGO INTORNO ALLA VECCHIEZZA FRA CATONE, SCIPIONE E LELIO - DEDICATO A TITO POMPONIO ATTICO


Se la fitta in tuo cor doglia molesta,
O Tito mio, mitigar m'è dato,
Della buon'opra mi darai mercede?

I. — Concedi, Attico, di rivolgermi a te con i medesimi metri, che Ennio poeta, meno eminente per ricchezze che per animo sensibile alla schietta amicizia, rivolgeva a Tito Quinzio Flamminino, comunque io menomamente non ti creda la mente giorno e notte così agitata, siccome a quel personaggio. Sono a me troppo noti il senso e la mitezza tua, portando io ferma opinione che tu prendesti il soprannome da Atene non, che nel puro tuo accento greco, per l'amenità dei costumi e la giudiziosa fermezza.
Tuttavia suppongo te dagli stessi casi profondamente commosso, che me pure talvolta tengono turbato, a confortarci de' quali da noi soli non bastiamo, ed unico sollievo possiamo aspettarlo dal tempo.
Perciò appunto ho deliberato d'inviarti i miei pensieri intorno alla vecchiezza. Essa, che ormai ne ha raggiunti e che non sta in poter nostro di sfuggire, voglio pormi con ogni studio a rendere meno tediosa per ambedue, per quanto mi sia nota la moderazione e saviezza con cui sopporti e sei preparato a sopportare quest'incomodo, al pari di qualsiasi altro.
E venuto nel proposito di tener discorso della vecchiezza, di te mi risovvenne a spronarmi in tale divisamento, siccome cosa che potrebbe ridondare a vantaggio d'ambedue.
Comporre questo trattato mi riuscì tanto più gradito, non che io m'attenda una panacea universale contro la molestia della vecchiezza: ma perché sembra a me la via di rendere la presenza di essa più mite e gioconda.
Laonde non potrà mai abbastanza meritamente encomiarsi la filosofia di far trascorrere a tutti coloro che sanno farne buon uso, senza dispiaceri l'intero corso della vita.
Ma di ciò a lungo già parlammo altrove e spesse fiate ancora diremo.
Io questo libro intorno alla vecchiaia t'invio: e davvero non parvemi tornasse conto di porre, siccome fece Aristone di Chio sulle labbra di Titone, questo sermone, avvegnachè, pronunciato da favolosi personaggi pochi trovasse propensi a credergli da senno. Bensì mi sembrò più a proposito di farne interlocutore Catone il seniore onde alle sentenze s'aggiungesse peso mercé l'autorità di tanto nome. — Lelio e Scipione feci ammiratori della amenità con cui Catone trova di accomodarsi alla vecchiezza, e di sue argute risposte.
Ove ti sembri che egli in questi dialoghi spenda maggior copia di erudizione, che non sia solito farlo in altri suoi scritti, il merito è tutto delle lettere greche, da quel sommo indefessamente coltivate negli anni senili. Ma a che giovano parole? Lasciamo a Catone medesimo il vanto di porre in maggiore luce le massime nostre intorno alla vecchiezza.

II. (Lodi a Catone. Opinioni controverse intorno alla vecchiezza.) — SCIPIONE. Io e Lelio siamo, o Catone, frequenti volte ammiratori del tuo squisito e profondo sapere in ogni cosa. Ma tanto più viva è la nostra ammirazione, perché consapevoli che non t'incomoda il peso della vecchiezza, di cui non pochi uomini sono infastiditi quasi pesasse sul loro dorso il monte Etna.
CATONE. Lelio e Scipione, voi prendete a fare le meraviglie per cosa di lieve conto. A coloro che entro sé medesimi nulla ponno trovare che li soccorra a condurre gioconda la vita, torna incomoda ogni età; ma gli uomini che hanno l'animo ricco di energia, non s'infastidiscono facilmente di ciò che deriva dal necessario ed immutabile ordine della natura.
Pur troppo la vecchiezza è la prima di queste necessità e nonpertanto gli uomini, a forza d'incessanti desideri, se l'avvicinano più rapidamente. Ma quando vi sono arrivati se ne lagnano, tanta è in essi incostanza, leggerezza ed ingiustizia. “Ci ha colto, dicono costoro, all'impensata, e più pronta che non fosse aspettata.”
Anzitutto, io dimando, come mai si condussero a fare un calcolo così fallace? Si dica in che modo una età succeda all'altra e la vecchiezza sembri incalzata più presto dall'adolescenza, che questa non sia raggiunta dall'infanzia? Al postutto sarebbe sedotto da mera illusione che immaginasse una vecchiezza più piacevole, per ciò solo che la vita potesse durare ottocento anni anziché ottanta. Per lunga che sia, in un modo o nell'altro passa l'età, e consumata una volta, allo stolido vecchio non rimane alcun compenso.
Se mai voi mi tenete in conto di uomo giudizioso, e Dio volesse che io fossi degno della vostra stima e del nome che porto, credete a me che ogni mia scienza è riposta a meditare ed ubbidire, quasi a Divinità, una eccellente guida, la natura. Ogni periodo della vita, essendo da essa distribuito con tanto senno, non è a supporsi che, simile a poeta dappoco, abbia studiato con minor diligenza l'ultimo atto della vita.
Ma siccome cosa fatta capo ha, nella stessa guisa che al chiudersi dell'autunno, le spiche e i baccelli resi maturi dalla stagione cadono al suolo dagli incurvati rami, giunto l'uomo al tramonto della vita, le sue forze si logorano ed affievoliscono. Ultima necessità, che il savio accetta senza ribellarsi: poiché invertere le leggi di natura, non è forse sull'esempio de' Titani, porsi in lotta con Dio?
LELIO. Or dunque, o Catone, ne farai cosa oltremodo gradita, e te ne sono mallevadore anche per Scipione, se a noi, preparati alla vecchiezza e nella fiducia di arrivarvi, tu additerai ben tosto il modo di sopportare quella pesante età.
CATONE. Di buon grado il farò, Lelio, qualora siccome lo dici, possa ciò essere ad entrambi.
LELIO. Ci proponiamo seriamente, o Catone, di conoscere da te quel sì lungo cammino che tu già calcasti, sul quale noi pure dobbiamo passare.

III. — CATONE. Ed io mi accingo alla meglio che potrò. Fra coloro a me pari d'età (gli eguali con gli eguali, dice un antico proverbio, conversano facilmente insieme) spesse volte m'avvenne udire lamentanze, le quali da Cajo Salinatore e Spurio Albino, personaggi consolari miei coetanei, erano biasimate; che fossero, cioè, ormai costretti di astenersi dai piaceri, senza di cui sembrava loro insipida la vita: né essere tenuti in conto presso loro, da cui per lo passato venivano corteggiati.
Del che, mi sembra, che nel rovesciarne la colpa sulla vecchiezza, fossero costoro fuori di via. Conciossiaché, se una simile accusa fosse da lei meritata, io pure del pari avrei dovuto subirne gli effetti, e con me coloro tutti di età più provetta, non pochi dei quali vidi traversare la vecchiezza senza lagnarsi, né trovare molesto il languore degli ardenti desideri, né essi mai venire a noia ai loro amici.
Ma per chi attentamente osservi, il peccato non sta nell'età, bensì ne' costumi. L'uomo di modi gentili e cortesi torna piacevole e gradito anche nella vecchiezza, mentre gli importuni ed esigenti sono molesti in qualsiasi stadio della vita.
LELIO. Parli ottimamente, o Catone. Ma per avventura non potrebbe taluno farti osservare che in mezzo alle dovizie, alla copia d'ogni cosa, allo splendore delle tue cariche, ti avviene di sopportare la vecchiezza più agevolmente, il che non da molti è possibile conseguire?
CATONE. Queste circostanze hanno il loro valore, ma sole non bastano sicuramente. E siccome narrasi di Temistocle che disputando con cotale serifiese, dal quale venivagli apposto non essere la di lui gloria merito tutto suo, ma di Atene sua patria, replicò “Non io, per Dio, sarei illustre, per ciò solo che nativo di Serifo; ma tu neppure saresti chiaro giammai quando pure fosti nato cittadino ateniese” altrettanto può dirsi della vecchiezza. Poiché nel modo stesso che l'uomo anche filosofo, travagliato dalla miseria, troverà incomoda l'età senile, del pari l'ignorante, benché circondato dagli agi a stento saprebbe compiacersene.
Conforti efficacissimi della vecchiaia, o amici, sono le arti e la pratica delle virtù, le quali coltivando in ogni tempo, anche nella più tarda età sono feconde di stupendi vantaggi, sì per non venire meno giammai anche nel più remoto periodo della vita (del che è massima l'importanza), e perché la coscienza pura di rimorsi, e la memoria d'avere operato il bene, sono dolcissima soddisfazione dell'uomo.

IV. (Encomio al vecchio Quinto Fabio Massimo.)
Io tuttora giovinetto, tenni caro, come mio coetaneo, quel vecchio Q. Fabio Massimo che ricuperò Taranto. In quel personaggio la gravità era temperata dalla cortesia dei modi, né per vecchiezza cambiò costume, benché mi legassi con lui, non ancora toccata l'età senile, comunque fossi abbastanza maturo.
Io era nato da un anno quando otteneva egli il primo suo consolato, e seco lui, allora console per la quarta volta, io giovinetto e semplice milite marciava alla volta di Capua, e poscia a Taranto. Quattro anni dopo venni Questore, la quale carica fu da me esercitata durante il consolato di Tuditano e Cetego nell'anno 549. A quell'epoca, Quinto Fabio già vecchio, propugnava la legge Cincia che vietava agli avvocati di accettar doni e ricompense. Giunto in avanzata età, con ardore virile condusse la guerra, e seppe stancare la focosa baldanza d'Annibale con le studiate lentezze.
Di lui egregiamente scrisse Ennio nostro:

Solo coll'indugiar salva fe' Roma:
Spregiò i clamori e vincitore in campo
Gloria n'ebbe sicura e assai maggiore!

Quale non fu la destrezza ed alacrità di quel capitano nel ricuperare Taranto? In mia presenza, a Salinatore, il quale abbandonata la fortezza s'era ricoverato nella rocca, e seco lui millantavasi dicendo: “per opera mia, Quinto Fabio, ricuperasti Taranto!” — “Sì, rispose Massimo sorridendo, né l'avrei ripresa giammai, se tu prima non te l'avesti lasciata toglier di mano”.
Né meno perito dimostrossi nelle civili che non fosse nelle belliche faccende: fu nel corso del suo secondo consolato, e resistendo alla neghittosa inerzia del collega Spurio Carvilio, che egli, come meglio seppe, fece opposizione a Cajo Flaminio tribuno della plebe, il quale, a scapito dell'autorità del Senato, favoreggiava la legge di scompartimento per capi al popolo delle picene e galliche terre: assunto alla dignità di augure, osava dire che i presagi erano propizi a chi operava a pro della repubblica, avversi sempre per coloro che tentavano di nuocerle.
Non pochi egregi atti mi avvenne di ammirare presso quel personaggio; ma nulla pareggia la fermezza d'animo che mise a sopportare la morte del figlio suo Marco, giovine di chiara rinomanza e già consolare. Leggendo l'orazione funebre ormai nota a tutti, che egli medesimo ne scrisse, gli stessi filosofi ne sembrano assottigliati a meschine proporzioni.
Né grande era solamente al cospetto de' suoi concittadini, ma più commendevole ancora nelle domestiche pareti. Per eleganza nel dire e sapere, preclaro; nell'archeologia, eruditissimo; profondo nella scienza degli auguri; nelle lettere, siccome conviensi a cittadino romano; perfettamente colto; dotato di prestante memoria, nessun particolare gli riusciva nuovo sì delle guerre intestine, che delle straniere.
Ed io avidamente godeva di conversare con lui, quasi presago di quanto avvenne; mancatomi un maestro di tanta capacità, non mi fu più possibile di rinvenirne l'eguale.

V. (Placida vita condotta dai vecchi.) — Assai cose dissi di Massimo e più che basti a convincervi che non avvi motivo di chiamare disagevole una vecchiezza pari alla sua.
Ma non tutti però ponno essere Scipioni, o Fabi per godersi nelle rimembranze di espugnate città, di battaglie campali o di mare — e di guerre condotte e riportati trionfi. Tranquilla e piacevole trascorre del pari la vecchiezza in seno alle gentili abitudini d'una vita placida e pura. Così narrasi di Platone che giunto all'ottantesimo anno si spegnesse scrivendo; di Isocrate che grave di novantaquattro, componeva il suo libro del Panatenaico, vivendo poscia altri cinque anni. Fu suo maestro Gorgia Leontino che varcò il centosettesimo anno, senza mai distogliersi dagli intrapresi studi, né abbandonare le consuete faccende. Richiesto un giorno, come mai sapesse reggersi in così lunga vita “ perché, rispose, la vecchiezza non mi dà finora motivo di essere malcontento”. Sublime risposta, degna di così valentuomo, conciossiaché gli uomini rozzi solamente incolpano l'età senile di loro melensaggine e de' loro difetti.
Così non la pensò quell'Ennio, a voi già noto:

Pari a destrier che la sudata arena
Correndo, vinse i contrastati allori
Ed or carico d'anni, sta e riposa

paragona la sua vecchiezza a quella d'antico animoso corsiero vincitore: e di lui certamente voi potete avere qualche memoria. Diecinove anni dopo sua morte vennero al Consolato Tito Flaminio e Marco Acilio; ed egli, essendo Consoli, per la seconda volta Cepione e Filippo, trapassò, allora appunto che, compiuti li sessantacinque anni, io mi feci a propugnare la legge Voconia con validi argomenti e con tutta l'energia de' miei polmoni. Ennio toccava il settantesimo anno, ed in quell'ultimo stadio, povertà e vecchiezza, che tutti credono noje gravissime, sopportò con tanta fermezza che quasi sembrava compiacersene.
Ad ogni modo, il tutto ben considerato, trovo quattro motivi per cui sembra infelice questa età.
Il primo, perché distoglie l'uomo dagli affari;
L'altro, perché è accompagnata dalle fisiche infermità;
Il terzo, perché lo priva presso che d'ogni voluttà;
Finalmente, perché confina da vicino con la morte.
Esaminiamo dunque ad una ad una queste accuse per giudicarne la verità.

VI. (La vecchiezza non distoglie l'uomo dai gravi affari.) — Il vecchio è dunque distolto dall'incumbere agli affari? Ma da quali per Dio? forse da quelli che hanno bisogno di gioventù e fisico vigore. Ma le forze dei vecchi non sono mai ridotte a tale nullità, che essi non possano supplire con la mente nel governo delle cose, quando le infermità del corpo hanno affievolita la loro energia. Era dunque assolutamente inetto quel Quinto Massimo? Inetto, Lucio Paolo tuo genitore, o Scipione, il quale fu suocero altresi di mio figliuolo, egregia persona? E gli altri vecchi, Fabrizio, Curio, Coruncanio prestando alla Repubblica l'appoggio del loro autorevole consiglio, forse che erano buoni da nulla?
Ed Appio Claudio che non solamente era vecchio, ma cieco, quando il Senato mostrossi propenso alla pace ed all'alleanza con Re Pirro, rimase egli un istante perplesso a biasimarlo con i detti, che Ennio riferisce ne' seguenti versi:

Senatori, dov'è l'usato senno?
Giudiziosi una volta, or deliranti,

e con altre rampogne dello stesso peso? — A voi quel carme non è cosa nuova. Esiste pure il discorso dello stesso Appio, da lui declamato diecisette anni dopo il suo secondo consolato, essendone già passati dieci fra questo e il primo al quale fu eletto dopo essere stato Censore. Tutto ciò prova quanto ei fosse attempato all'epoca della guerra con Pirro: e tuttavia, come lo attestano i di lui contemporanei, parlò con meraviglioso vigore.
Nulla dunque provano coloro che affermano essere inetta agli affari la vecchiezza. Simili in questa loro opinione a chi giudichi ozioso il pilota, conciossiaché mentre i marinai salgono sugli alberi, alcuni corrono alle sarte lungo i bordi, ed altri vuotano lo scafo dell'acqua, solo sta seduto a poppa immobile, stringendo nella mano il timone. Egli non si affatica come i giovani certamente, ma presta opera assai più essenziale e migliore.
Alle grandi imprese non sono qualità necessarie il vigore, la flessibilità delle membra; ma bensì il senno, la dottrina e l'autorità del comando, doti che la vecchiezza non che scemare, rende complete.
Ed io medesimo che alla volta milite, tribuno, legato, console, sono versato nelle arti della guerra, forse vi sembro ozioso perché non mi vedete a capitanare un esercito? E che perciò, se nel Senato mi faccio a proporre ogni fazione militare, e il modo e il tempo d'operare? Io, con lo sguardo teso sulle puniche frodi, tengo già ordinato il piano della guerra, prima che essa venga bandita a Cartagine; né cesserò mai di dare l'allarme, finché quella città non veda distrutta. Piaccia agli Dei, o Scipione, che sia questa la gloria destinata a te avviato sulle orme dell'avo, il quale, passato da tredici anni, lasciò di sé memoria imperitura.
Noi fummo Consoli assieme, egli però per la seconda volta; e nove anni dopo se ne morì, prima appunto dell'anno in cui io stesso venni eletto a Censore. Fosse egli vissuto cento anni, non avrebbe certamente avuto di che pentirsi per sì lunga vecchiezza! Aveva abbandonato il salto, la corsa, il maneggio del giavellotto e della spada, ma era maestro di esperienza e di senno. — E per tali doti che appartengono di consueto agli uomini attempati, fu dai maggiori nostri il Senato appellato Consiglio della Repubblica. Del pari presso gli Spartani fra i vecchi vengono eletti i supremi magistrati, e perciò appunto col nome di seniori chiamati. Basta il leggere e scorrere le straniere storie, per rinvenirvi ad ogni tratto esempli di grandi repubbliche poste a soqquadro da giovani, da vecchi puntellate e reintegrate nella pristina grandezza.

Giace la patria vostra, un dì possente:
Ditemi or voi, perché cadde sì tosto?

È questa la dimanda che Nevio poeta introduce in una delle sue commedie. E fra le altre osservazioni, sovrasta questa risposta:

Oratori inesperti, stolti, imberbi
Tenner lo Stato e vi dettâr le leggi.

La gioventù pecca per eccessiva temerità; la prudenza appartiene ai vecchi.

VII. (Né memoria né ingegno fanno difetto ai vecchi.) — Si rampognano i vecchi per fugace memoria. Sia pure, quando fu tarda per natura, o irrugginì per mancanza di esercizio.
Temistocle chiamava a nome tutti i cittadini: tuttavia ch'il crederebbe? nell'età avanzata, confondeva i nomi, e salutando Aristide lo appellava Lisimaco. Io parimenti conobbi non solamente coloro che al presente sono ancora in vita, ma i padri ed avi loro. Scorrendo le iscrizioni scolpite sui loro sepolcri, non lo faccio, come asseriscono taluni, per timore di smarrirne la ricordanza, bensì perché in cosiffatta guisa rivivo fra i trapassati.
Non mi sovviene di persone attempate che nascosto un tesoro, dimenticassero mai il luogo dove l'avevano celato. Rimembrano esse con rara precisione ogni loro faccenda, non lasciano cadere in contumacia l'assegnamento delle comparse nel foro, e tengono nella memoria i nomi de' loro debitori e creditori. Gran numero di giureconsulti, pontefici, auguri, filosofi, arrivati in età avanzatissima, conservarono intatta la vasta loro erudizione.
Lo studio e l'alacrità giovano a mantenere vigorosa la mente dei vecchi. E ciò non avviene solamente per eminenti e chiari personaggi, ma per coloro altresì che vivono privatamente.
Giunto all'ultimo stadio senile, Sofocle componeva tragedie, e perché assorto dalla passione dello studio era noncurante degli interessi della casa, venne dai figli chiamato a renderne conto ai giudici. E nella stessa guisa che in Roma sono interdetti coloro che malamente amministrano le loro sostanze, così da quel tribunale veniva Sofocle dichiarato mentecatto e sospeso dal governo della famiglia. Narrasi di quel vecchio venerabile, che al cospetto dei giudici prendesse a declamare l'Edipo a Colono, tragedia di fresco composta, in torno a cui stava tuttora lavorando, e chiedesse loro se quei versi sembrassero dettati da uno stolido? — E quella recita bastò perché il Tribunale rievocasse la sentenza.
Or dunque Omero, Esiodo, Simonide, Stesicoro, e gli altri già da me nominati, Isocrate, Gorgia, Pitagora il principe dei filosofi, Democrito, Platone, Zenocrate, e poscia Zenone, Cleante, e colui che voi tutti vedevate in Roma, lo stoico Diogene, vennero forse costretti per vecchiezza a dimettersi dagli studi, ovvero li proseguirono essi nel corso dell'intera vita?
Anche lasciata in disparte la divina occupazione delle lettere, ben io potrei nominarvi non pochi campagnuoli dell'Agro Sabino miei vicini e famigliari, ai quali punto non garberebbe che in loro assenza, altri desse mano ad alcun lavoro rurale di qualche importanza, né alla seminagione, né al raccolto, né al togliere le granaglie dall'aia. E la gelosia di tali faccende che sono di lunga lena mi desta minor meraviglia, perché non è un uomo per vecchio che sia, il quale non creda di poter vivere ancora quell'anno. Tuttavia essi incumbono a non pochi lavori, dei quali ben sanno che non potranno raccogliere il frutto in vita. “È d'uopo piantare alberi che preparino l'ombra ai nostri nipoti” dice il nostro Cecilio Stazio nella commedia dei Giovinetti coetanei.
E il tremolante agricoltore richiesto per chi mai sudi a tracciare solchi novelli vi risponderà senza imbarazzo: gli Dei immortali ne permisero di ricevere fecondi e ben coltivati i campi dai nostri maggiori, affinché fossero da noi tramandati nel medesimo stato ai nostri nipoti.

VIII. (Il conversare con vecchi riesce piacevole). — Quando Stazio Cecilio alludeva alla previdenza dei vecchi oltre il confine dell'età loro, li avea lasciati parlare più giudiziosamente che dopo non facesse con i seguenti versi:

Per Giove, se vecchiezza al venir suo
Non traesse altro sconcio, avvene un solo
E questo basta. Per sì lunga etade
Vede assai più, ch'essa veder non brami.

Sia pure, ma scorge altresì non poche delle cose che desidera.
Né i vecchi solamente, ma la gioventù stessa di frequente, si avviene in molti oggetti che scanserebbe volentieri.
Falsissima però oltre ogni dire è quell'altra sentenza di Cecilio:

Miseri vecchi! Essi lo sanno a prova,
Di farsi coll'età noiosi al mondo.

anziché noiosi, dico io, piacevoli.
Nello stesso modo che ai colti vecchi riesce gradito il conversare con giovani d'ottima indole, per il diletto che trovano nel rispetto e nella benevolenza della gioventù, del pari i giovinetti accettano con piacere gli ammaestramenti degli uomini attempati, siccome indirizzo al retto cammino della virtù. Dal canto mio credo di non essere meno accetto a voi di quanto voi stessi lo siete a me.
Ma procacciate di evitare che la vecchiezza s'intiepidisca nel languore dell'inerzia, tenetela tesa nelle utili occupazioni e sempre attenta a qualche studio: non però in contraddizione con quelli in cui si esercitò nei precedenti anni.
Che dire di coloro che non si stancano dal far dovizia di nuove cognizioni? Non aspirò forse Solone alla palma della poesia? narra egli non aver mai cessato di apprendere cose nuove benché assai attempato. Non dissimile da lui io già vecchio mi diedi allo studio delle greche lettere e con vera passione, onde saziare l'ardente sete di farmi profondo in quelle dottrine dalle quali ora attingo esempi ad ogni tratto. Al pari di Socrate datosi con ostinato proposito allo studio della cetra (posciaché presso gli antichi frequentissimo era l'esercizio della musica) neppure io dedicandomi allo studio della letteratura greca, volli essere avaro di fatica.

IX. (Le forze de' vecchi sono di altra specie e si fanno amare dai giovani mercé i loro ragionamenti.) — Venendo a parlarvi della mancanza di forze, altra delle mende apposte alla vecchiezza, nella mia gravissima età non m'è venuto mai di invidiare il vigore de' giovani. Io pure, nel fiore degli anni, pago della mia, non mi sono mai sentito umiliato davanti alla possanza muscolare del toro e dell'elefante. Il savio è soddisfatto dei mezzi che ha e li impiega tutti ad ottenere l'intento.
Come si mostrò dappoco e spregevole quel Milione di Crotone, il quale reso cadente per età, allo spettacolo degli atleti nella palestra, mirando con occhi pieni di lagrime i muscoli del proprio braccio, — e questi, disse, non valgono più a nulla! — E tu assai meno di essi, vecchio stolido, perché non ti bastò l'animo di crearti un nome con l'ingegno e quel poco di celebrità te la diedero le spalle e il nerbo del tuo braccio. Assai diversi di cotestui furono Sesto Elio, Tito Coruncanio che vissero in epoca anteriore, e Publio Crasso, mercé i quali le leggi a tutela dei cittadini furono poste in vigore e che fecero prova di maturo senno fino all'ultima età.
Ma, perché dissimularlo? nella vecchiezza pochi sono oratori; mentre a quest'arte non soccorre il solo ingegno; essa ha bisogno di lena e polmoni. Del resto può essere conservata anche nella vecchiezza l'armonia della voce; in qual modo poi non saprei spiegarlo. Essa a me medesimo non venne meno finora, benché molti lustri abbia già contati.
Il discorso dei vecchi è rotondo, placido, maestoso. Con eleganti ed aggraziate frasi, non di rado fermano essi l'attenzione de' loro uditori. E se le affievolite forze non permettono loro più di arringare nella Curia, hanno almeno la compiacenza che mercé i consigli dati nelle domestiche pareti a giovani generosi del calibro de' Leli e de' Scipioni, altri eseguiscano quanto fu da loro proposto. Questi uomini canuti ponno essi trovar compenso più dolce della affezionata gioventù che fa loro onorevole corona? Ho motivo di credere Gneo e Publio Scipinone e i tuoi due avi Lucio Emilio e Publio Africano ebbero vaghezza di vivere nel consorzio di nobili giovani. Ciò prova non doversi stimare meno felici coloro che sono maestri di dottrina, per ciò solo che consumarono il vigore con l'età. La fisica debolezza frequenti volte è colpa dei vizi della gioventù, anziché degli acciacchi della vecchiezza. Una adolescenza disordinata e lasciva rende il corpo snervato e cadente nell'età senile. Leggesi in Senofonte d'un discorso tenuto dal Re Ciro a vicino a morte, nel quale afferma di non essersi avveduto che da vecchio le sue facoltà mentali fossero divenute più deboli che non le avesse in gioventù.
Nella mia fanciullezza ho memoria di Lucio Metello (quattro anni dopo il secondo Consolato venne eletto sommo Pontefice, e non meno di venti anni più tardi copriva ancora quella dignità) che giunto all'estrema vecchiezza era robusto al pari di qualsiasi giovane. Nulla vi dirò sul conto mio, malgrado l'antico uso dei vecchi ai quali si perdona in grazia dell'età.

X. (Personaggi che condussero robusta vecchiezza.) — Nei poemi di Omero avrete certamente letto di Nestore eterno panegirista de' propri meriti. Toccando egli pressoche novant'anni, non ebbe a temere, grazie alla schiettezza con cui parlò di sé medesimo, di venir giudicato ciarlone esagerato e millantatore. Narra Omero che la parola scorrevagli sulle labbra più dolce del miele, né a condirla di tanta soavità avea mestieri di fisica forza. Tuttavia dalle labbra del supremo condottiero de' Greci non esce mai il voto che dieci Aiaci sieno da anteporsi a dieci Nestori. Se questi ei possedesse non dubiterebbe della prossima espugnazione di Troia.
Ma ripiglio il discorso per dirvi che giunto all'anno ottantesimoquarto, vorrei pure sapermene dar vanto come faceva Ciro; ma non posso dissimularvi che le mie forze sono di gran lunga minori che non fossero quando milite feci la guerra cartaginese e nella medesima campagna ottenni la carica di Questore; o Console mi trattenni nella Spagna, e quattr'anni dopo, allorché, Tribuno militare, presi parte al combattimento presso le Termopili, sotto il Consolato di M. Acilio Glabrio. Malgrado li gravi sofferti disagi, la vecchiezza, con i lo vedete, non mi snervò completamente, né sono affranto dalle infermità, e il foro, il tribunale, gli amici, i clienti, gli ospiti non si lagnano certo che io manchi d'attività.
Non sarò mai per approvare quel vecchio proverbio che dice: non farti vecchio troppo tardi, se vuoi campar vecchio lungamente. — Preferirei di passare pochi anni nella vecchiezza, che non avvicinarmela prima del tempo. Ond'è che nessuno venuto da me per affari, ebbe a cogliermi nell'ozio.
Non crediate però che io mi tenga di robustezza pari alla vostra, siccome voi pure conoscete certamente di essere meno vigorosi del Centurione Tito Ponzio. Vanta egli per ciò solo un merito maggiore del vostro? Ponno bastare anche forze moderate, e purché ciascuno faccia né più, né meno di quanto è capace, non potrà mai essere invidioso d'altri. Narrasi che Milone percorresse lo stadio Olimpico portando un bue sulle spalle. Sareste voi ambiziosi di questa gloria materiale, anziché di quella che Pitagora ottenne con il luminoso suo ingegno? Godiamo pure le forze fisiche finché le abbiamo, ma non rimpiangiamole quando ne abbandonano. Altrimenti avverrebbe che giovani lamentassimo la puerizia, e fatti adulti faremmo richiamo all'adolescenza già sfuggita.
L'età procede sempre con passo costante, e natura che batte unica e semplice via, e assegna ciò che spetta ad ogni stagione della vita, comparte all'infante la debilità, ai giovani l'intrepidezza, la perseveranza all'adulto, lasciando ai vecchi la prudenza e il consiglio. E tu stesso, o Scipione, sei in grado di darci contezza del nonagenario Massinissa ospite tuo e dell'avo. Di quell'uomo, che postosi in viaggio a piedi, non prendeva certo una cavalcatura; e se a cavallo, non discendeva per lungo che fosse il cammino, né per gelo o per pioggia coprivasi il capo: di corpo adusto e muscoloso non mancò neppure ai doveri ed al carattere di Re.
Laonde l'esercizio e la temperanza giovano ai vecchi per conservare una parte del pristino vigore.

XI. (Il senno supplisce ne' vecchi la fisica debolezza.) — Nella vecchiezza vengono meno le forze, né vi sarebbe ragione di pretenderne da essa. Per legge è dispensata da ogni atto, dove sia mestieri vigoria di corpo; nessun obbligo ci corre di fare quelle cose a cui siamo inetti, e nemmeno di adempirle nella misura che le forze nostre ce lo permetterebbero. Poiché tale è l'imbecillità di molti vecchi da renderli incapaci d'ogni ufficio, nonché di qualsiasi comune incumbenza sociale. Ciò però non potrebbe assegnarsi a vizio speciale della vecchiezza, bensì alle infermità inseparabili dalla umana natura.
Poteva essere più sfinito di forze quel figlio di Publio Scipione Africano, del quale tu sei figlio adottivo? Poteva la di lui salute essere più vacillante o per meglio dire soffrire infermità più ostinate? Se le malattie non avessero reso tanto grave la sua debolezza, Roma avrebbe vantato una gloria di più, poiché al generoso animo del genitore accoppiava una erudizione di gran lunga più vasta.
Perché dunque far sì gran caso delle infermità de' vecchi, se i giovani medesimi talvolta non ponno evitarle?
È mestieri, o Lelio o Scipione, avvezzarsi a far resistenza alla vecchiezza, e supplire ai di lei incomodi con l'alacrità: combatterla, come avviene delle malattie, quando ne siamo assaliti. Aver giudiziosa cura della salute; attendere a moderati esercizi; di cibo e bevanda prenderne quella porzione che basti bensì a rifare le forze, non mai a intorpidirle.
Il corpo non solo, ma le morali facoltà educare e soccorrere, poiché a guisa della fiamma che mancando l'olio si spegne, così queste vengono offuscate dalla vecchiezza. Diversamente dai corpi snervati dall'eccessivo esercizio e dalla fatica, l'animo è più svegliato quanto più operoso.
Conciossiaché quando il poeta Cecilio ci presenta sulla scena i vecchi stolidi, li sottintende creduli, smemorati, dissoluti; cattive qualità non appartenenti all'indole dell'età attempata, bensì generate dall'inerzia, dall'ozio, dalla svogliatezza, che in certi vecchi diventò abitudine.
A quel modo che inverecondia e libidine sono vizi assai più da giovani, che da vecchi, e non per questo può darsena la taccia ai giovani tutti, sibbene ai malvagi fra essi; del pari non tutti i vecchi, ma quelli soli di poco cervello si abbandonano alle stolidezze, e smarriscono il retto criterio.
Appio, vecchio e cieco com'era, governava quattro figli già adulti, cinque figlie, un servidorame assai numeroso, ed una estesa clientela. Con mente svegliatissima attendeva a tutti gli affari, i quali non soffrirono mai perché fosse tanto attempato.
Non pago di essere capo della famiglia, ei ne esercitava di fatto il potere: temuto dagli schiavi, rispettato dai liberi. Tutti lo avevano caro, e la di lui casa offriva un modello di costumi, e di ordine veramente romano. Così la vecchiezza sostiene il decoro, e vale a mantenersi indipendente, se non è costretta a spogliarsi dell'autorità, e se col senno domina la famiglia fino all'ultimo limite della vita.
È degno di tutta la mia stima quel giovine che la pensa da uomo maturo, non meno del vecchio che conserva vivacità ed animo giovanile, in esso invecchiando bensì il corpo, l'ingegno reggendosi sempre vigile e pronto.
Dal canto mio, ora sto componendo il settimo libro di Origene, faccio collezione d'antichi monumenti, attendo indefessamente a ripulire le orazioni da me pronunciate nelle più celebri cause, studio sui codici degli Auguri, dei Pontefici, e del diritto civile; faccio altresì quotidiano esercizio di lettere greche, e giusta l'uso de' pitagorici, onde tenermi pronta la memoria di quanto dissi, ascoltai e feci nella giornata, tengo nota nella sera. È questa la maniera di affilare l'ingegno, questa la ginnastica del pensiero. Occupato assiduamente, ottengo di sentire ben poco il bisogno delle forze del corpo. Non lascio negletti gli amici, di frequente intervengo alle adunanze del Senato; per quelli e per questo presento memorie profondamente studiate che faccio valere col vigore dell'animo, anziché con le fisiche forze. Ed ove me ne sentissi incapace, mi riuscirebbe gradito anche lo stesso letto sul quale starei adagiato, elaborando col pensiero le idee che non bastassi a mandare ad effetto. Ma grazie al mio sistema di vita, m'è dato di attendervi e trarle a compimento.
In questo modo per coloro che fra gli studi conducono una vita attiva e indefessa, la vecchiezza viene quasi inosservata, gli anni si accumulano senza avvedersene, e il filo dell'età non si spezza all'improvviso, ma nell'attrito d'un giorno con l'altro è consumato.

XII. (La vecchiezza distoglie dai piaceri sensuali.) — Terzo difetto si appone alla vecchiezza: d'essere abbandonata dal gusto dei sensi.
O età doppiamente privilegiata se mercé di essa siamo tratti in salvo da ciò che è fonte di tanti vizi per la gioventù! E qui, ottimi garzoni, imparate quale fosse l'opinione di Archita di Taranto, filosofo chiarissimo e primo fra i primi di quella città. A me venne fatto di conoscerla quando tuttora giovinetto ebbi stanza in quella città con Quinto Massimo.
Diceva quel savio che natura non avea mai percosso gli uomini con flagello peggiore dei godimenti sensuali. “Da quella sete insaziabile di voluttà sono eccitati senza verecondia e senza freno. Per essa tradirsi la patria, rovesciarsi le repubbliche, aprirsi perfidi colloqui col nemico. Non scelleraggine, non misfatto dove non tragga irresistibilmente la passione delle voluttà; stupri, adulteri ed altre nefandità avere primo, prepotente eccitamento dalla libidine. All'uomo compartisse natura, o per avventura un Dio, dote nobilissima, l'ingegno, e la concupiscenza bastare da sola a corromperlo ed ottenebrarlo. L'uomo nel calore della libidine non sente più il freno, ed ogni virtù abbandona l'animo di coloro che lasciansi dominare da così sozza passione.” Soggiungendo poi, onde maggiore fosse l'evidenza di questa verità, doversi immaginare un uomo arso da quell'ardentissima fiamma. “Chi mai crederebbe, sotto la brutale contrazione di tanto incubo, potesse diverso desiderio o pensiero schiudersi la via nella sua mente? Avvisava nulla esservi di più vituperoso ed iniquo della voluttà la quale se per lungo tempo irrita i sensi dell'uomo, irreparabilmente ne spegne ogni lume dell'intelletto.”
Tale ragionamento tenne Archita con Caio Ponzio Sannito genitore di quello stesso che sbaragliò l'esercito dei Consoli Publio Postumio, e Tito Vetturio nella battaglia di Caudio. Nearco di Taranto ospite nostro, e tanto innoltrato nelle grazie del popolo romano, affermò averlo udito da persone già attempate, e soggiunse essere stato presente a quelle parole l'ateniese Platone, che siccome ho letto, aveva preso stanza in Taranto sotto il consolato di Lucio Camillo e di Appio Claudio.
Ma a qual fine vengo io a narrarvi tante cose? È mio intento di persuadervi che se non bastasse la sola ragione e la filosofia a rendere odiosi i piaceri sensuali, teniamo almeno dovere di gratitudine alla vecchiezza, la quale non ne lascia più desiderare quello che non ne bisogna.
La passione delle voluttà ci toglie il retto criterio, oscura il pensiero, e non associasi mai con la pratica di qualsiasi virtù.
Io stesso feci cassare dal Senato, otto anni dopo il suo consolato, Lucio Flamminino fratello di quell'ottimo e valoroso Tito Flamminino, e malgrado il facessi di mala voglia, ne vergai il decreto, pensando che contro la di lui sfacciata libidine un esempio fosse necessario. Mentre stava Console in Gallia quell'uomo, fra i vapori d'un banchetto, ammaliato dai vezzeggiamenti d'una cortigiana, percosse a morte un prigioniero già condannato per capitali delitti. Questo misfatto passò inosservato alle investigazioni di suo fratello Tito, assunto a Censore poco tempo prima che io vi fossi chiamato. Ma da me e da Flacco fu considerata imperdonabile così scellerata licenza che aggravava il disonore della pubblica carica con la privata ignominia.

XIII. (Non disdicono ai vecchi gli onesti godimenti della mensa.) — M'avvenne più volte che i maggiori miei facessero racconto, siccome di fatto accaduto nella loro età giovanile, che Caio Fabrizio allorquando stava Legato della repubblica presso il Re Pirro, facesse meraviglie di quanto gli narrò il tessalo Cinea di certo ateniese, il quale tenevasi in conto di filosofo ed affermava la voluttà servire d'incitamento a tutte le azioni dell'uomo. Marco Curio e Tito Coruncanio, all'udire codesta sentenza, fecero voti che Re Pirro e i Sanniti accettassero per vera quella dottrina nella certezza di poterli vincere più facilmente resi imbelli per sì brutale passione.
Contemporaneo di Marco Curio e cinque anni prima che questi venisse al Consolato, Publio Decio, console per la quarta volta, faceva sagrificio della propria vita alla Repubblica. Era questo Curio amicissimo di Fabricio e di Coruncanio; ed essi, così il costume di sua vita che l'eroico atto di Decio considerando, avvisavano esservi certamente alcun che di specie più bella e nobile che per spontanea attrattiva si fa appetire: ciò che ogni uomo dabbene, posta in non cale la voluttà, dovrebbe fare studio di conseguire.
Ma ormai fu detto più che basti de' piaceri sensuali, il che torna in lode più che in biasimo della vecchiezza, se per essa si ammorza la scintilla delle emozioni carnali.
Non ghiotta di squisite vivande, di sontuose mense imbandite e di tazze ricolme, nemmeno soggiace all'ebbrezza, alle affannose veglie, agli agitati sogni.
Ma se pure in qualche modo è forza compatire al fascino delle voluttà, arduo non poco essendo combattere il solletico de' sensi (dal divo Platone chiamato esca del male, essendone gli uomini accalappiati come i pesci all'amo), basti che i vecchi s'astengano dalle disordinate gozzoviglie senza vietar loro i modesti passatempi, e i temperati banchetti.
Caio Duillio figlio di Marco, che primo vinse in battaglia navale i Cartaginesi, io, tuttora adolescente, vidi più d'una volta far ritorno da cena lietamente fra lo splendore di abbaglianti doppieri e i suoni armoniosi; unico fra i privati cittadini che si regalasse con tanta magnificenza, la gloria delle sue gesta scusando questa licenza.
E senza parlarvi d'altri, non poss'io di me stesso intrattenervi che sempre vissi in festose brigate?
Sotto la mia questura vennero istituiti consorzi d'uomini per liete adunanze nei giorni sacri ai riti di Cibele. In mezzo a questi gioviali convegni si banchettava, ma senza varcare i limiti della temperanza, sebbene non potesse ammutolire lo slancio vivace naturale alla gioventù.
Con la matura età però ogni atto si compone a più placidi e pacati modi. Il diletto di questi banchetti, assai meno stava risposto nei godimenti della gola, che nella qualità degli amici e del piacevole conversare. Più esattamente dei Greci, gli avi nostri, dal convivere degli amici a mensa, il nome di convito derivarono. Coloro invece, appellando sodalizi di bevande e di cibi questi convegni, mostrarono dare la preminenza alla parte materiale, che avrebbero dovuto tenere in infimo pregio.

XIV. (Gozzoviglie di Catone.) — Per diletto di conversare, amo talora presentarmi ai conviti prima dell'ora fissata e partirmene dopo; e non siedo soltanto fra i miei coetanei che ormai sono assai diradati; mi va a genio anche la compagnia dei giovani dell'età vostra e di voi. E ne tengo debito alla vecchiezza, che di tanto mi accrebbe il gusto del conversare quanto m'ha scemato quello della bottiglia e de' manicaretti.
Che se taluni sono ghiotti di questi piaceri sensuali (affinché io non sembri troppo austero avversario delle voluttà verso le quali per avventura sta nell'uomo una tendenza naturale) mi asterrò dall'affermare che per essere ormai vecchi sia loro mancata ogni sensibilità.
Piace anche a me, credetelo, la presidenza della mensa introdotta dai nostri maggiori e i brindisi che il capo della tavola innalza fra le ricolme tazze, purché, siccome Senofonte ne apprende nel suo Simposio, queste sieno di piccola forma adattata per deliberare il vino; mi piace la fresca aura nella state, e nel verno godo al tepore del sole, o di fiamma vivace, li quali gusti di frequente mi prendo nella mia villa Sabina. Ivi convito ogni giorni i vicini a cena e vi sediamo fino a notte inoltrata passando il tempo in giocosi discorsi sopra vari argomenti.
Che lo stimolo sensuale, non si faccia sentire con molta vivacità nei vecchi, lo credo. Tuttavia l'astinenza non debbe costare ad essi molta fatica. La privazione d'una cosa non più desiderata, cessa d'essere molesta.
Sofocle richiesto da taluno già in età avanzata perché non si prendesse i piaceri di Venere “Dio me ne guardi”, rispose, “di piena volontà li sfuggo, siccome da tiranno dispotico e sfrenato”. Per verità coloro che sono ghiotti di questi diletti, ne trovano spiacevole e molesta la privazione; quelli poi che a sazietà ne gustarono, sono assai più paghi di averli abbandonati, che di goderne. Siccome la pena dell'astinenza non è sentita da chi non appetisce, preferisco la mancanza del desiderio al possesso.
I giovani certamente trovano mercato più facile e spontaneo di certe voluttà; ma anzitutto, diciamolo pure, sono questi piaceri riprovevoli. — Se poi la vecchiezza non può goder degli altri a profusione, non le manca mezzo tuttavia di gustarli con moderazione. L'attore Turpio Ambivio diletta certamente assai più coloro che siedono ai primi posti, ma ponno averne piacere anche gli spettatori collocati ai secondi.
Del pari la gioventù assapora i piaceri più spensieratamente perché vi si abbandona con maggiore intimità, ma i vecchi hanno mezzo di esserne soddisfatti anche tenendosi a moderata distanza da essi, perché sentono bisogni più limitati. Contiamo forse per poco che l'animo nostro, scosso il dominio delle sozze passioni, quali sono la libidine, l'ambizione, l'invidia, l'odio, possa vivere in pace, e per così dire, a sé medesimo? Soccorsa dal pascolo dello studio e della dottrina, la vecchiezza nella placida sua acquiescenza, può apprestarsi momenti piacevolissimi.
Non vidimo noi Caio Gallo amicissimo del padre tuo, o Scipione, uscir vita quasi senza avvedersene, tanto fervore metteva negli studi dell'astronomia? Oh quante volte fu sorpreso dall'aurora dopo essersi posto allo studio nella sera precedente! Quante volte, la notte sopraggiunse intanto ad un lavoro da lui incominciato nel mattino! Come godeva quell'ottimo nel predirci assai prima che non fossero visibili, gli eclissi del sole e della luna?
Che dirò io degli studi meno severi dove però è necessario un pronto ingegno? Con quanto diletto Nevio ci declamava le imprese della guerra cartaginese! Quanta compiacenza Plauto sentiva delle sue commedie il Truculento e il Pseudolo?
Sei anni prima della mia nascita, Livio Andronico, già fatto vecchio, non scriveva forse una tragedia sotto il consolato di Centone e di Tuditano? Tuttavia io era già fatto adulto che egli stava ancora in vita. Che dirò di P. Licinio Crasso autore d'un commento sul diritto civile e pontificio? O degli scritti di Publio Scipione, il quale ai nostri giorni noi tutti abbiamo salutato Pontefice massimo?
Questi personaggi che io passai a rassegna, benché carichi d'anni, non cessarono mai di proseguire con ardore i loro studi. E quel Marco Cetego, chiamato da Ennio con tanto criterio anima della Dea Suadal, benché giunto in età avanzatissima, non vidimo noi ostinatamente immerso nelle profonde sue meditazioni intorno al ben dire?
Che valgono mai, diciamolo schiettamente, i godimenti della mensa, dei dadi e del bordello a paragone di quelle morali soddisfazioni? Mercé di codesti studi, viene creata una dottrina che grado per grado crescente, arriva a sublime stadio, a misura del senno e dell'ingegno di chi la possiede. Assai giudiziosa massima fu dunque quella scritta da Solone, in alcuno de' suoi versi, che cioè, dall'invecchiare, ogni giorno apprendeva qualche cosa, nel che la voluttà provata dall'animo suo era maggiore di qualsiasi altra.

XV. (L'agricoltura nobile passatempo de' vecchi.) — Vengo ora ai piaceri dell'agricoltura, la passione dei quali è per me indicibile; prestandosi essi così bene anche alla vecchiezza, senza digradare le cure dell'uomo dotto.
Gli agricoltori sono intenti al lavoro della terra, la quale non è mai ribelle alla mano dell'uomo, e rende con usura, talora più, talora meno, ma quasi sempre generosamente, li semi deposti nel suo seno. La terra non mi porge piacere per i soli frutti che produce, altresì per il vigore e per le proprietà della sua natura.
Nei di lei solchi squarciati dall'aratro e ricchi di sostanze fermentatrici accoglie lo sparso seme che asconde nel seno delle infrante glebe (da cui l'arte poscia inventava l'erpicazione). Il seme dagli ardori solari riscaldato e reso fecondo, s'inturgida, e ne spunta fuori una verde, sottile erbetta, le tenere fibre della quale traggono nutrimento dalle di lei radici; a misura che invigorisce s'innalza, e rizzata sul nodoso stelo, quasi pudibonda, fa velo ai semi nei calici non per anco dischiusi. Questi apronsi allo spiccare de' grani, che simmetricamente distribuiti, alla voracità dei piccoli uccelli trovano scudo nei gusci delle spiche.
E se mi trattenessi a parlarvi intorno alla piantagione, al nascimento, allo sviluppo della vite, ciò farei non per altro, che non sono mai pago di far conoscere la pace e i placidi passatempi di questa mia senile età. Ma troppo lungo sarebbe il discorrere della forza vitale d'ogni produzione terrestre, la quale dal granello del fico e dall'acino della vite fino ai minutissimi semi di tutti i vegetabili, infinite propagini e rami fa nascere. Chi può non ammirare e dilettarsi alla vista delle piante di radice vigorosa, degli arboscelli, de' tralci, degli allievi innestati? La vite per indole propria flessibilissima, che priva di sostegni, giace prostrata al suolo, meravigliosamente si drizza sui propri capreoli, i quali a guisa di mano afferrano tutto ciò che sta loro vicino. Guidato dall'arte sua, l'agricoltore le tronca con il ferro i tralci parassiti che serpeggianti e molteplici spinge per ogni lato, onde impedire che essa, per lussureggianti rami, inselvatichisca e prodigati facciansi insipidi i di lei succhi. All'aprire della primavera spunta la gemma sulle articolazioni dei rami lasciati al tronco, e da essa nasce l'uva, che alimentata dai calori del sole e dai sali della terra, da principio appare agresta al palato e poscia maturando acquista dolcezza, e avvolta ne' rigogliosi pampini se ne fa velo contro i raggi solari, senza perdere il beneficio della tepida temperatura. Non avvi albero che meglio della vite produca frutto più saporito, e leggiadro allo sguardo. Io non solo apprezzo altamente l'utilità di essa, ma eziandio mi diletta la di lei coltivazione, e i vari sistemi di regolarla, l'ordine delle spalliere, l'intrecciamento delle propaggini, il modo di moltiplicarle, la separazione dei tralci parassiti, e l'immissione sotterra di quelli che voglionsi far germogliare.
Dirò io dell'irrigazione, della canalizzazione degli scoli, e della concimatura dei terreni mirabilmente idonea a fomentare la fecondità del suolo?
Appunto perciò sembrommi pregio dell'opera tener separato discorso di essa nel libro che appositamente scrissi intorno alle cose agrarie, benché Esiodo, per altro sì dotto, il quale trattò della coltura dei campi, non abbia nemmeno fatto parola degli ingrassi, che sono primo elemento di fertilità. Omero però, che vari secoli visse prima di Esiodo, molto a proposito descrive Laerte, il quale onde confortarsi della dolorosa assenza del figlio Ulisse, sta rivolgendo e concimando l'orto.
Attendere all'agricoltura non diletta solamente mercé la educazione delle messi, delle praterie, delle vigne e degli alberi, ma torna oltremodo piacevole per tutto ciò che spetta ai frutteti, agli ortaggi, al pascolo dei greggi, alla cura degli alveari, alla infinita varietà dei fiori. Al piacere che porgono le piantagioni si può aggiungere quello dell'innesto, invenzione che onora i progressi dell'agricoltore.

XVI. (Generali romani coltivatori della terra.) — Potrei farvi passare a rassegna altri non pochi passatempi campestri, se non mi avvedessi d'essermi su questo argomento già troppo dilungato. Voi però mi sarete indulgenti per tale prolissità in grazia del profondo studio che feci intorno all'agricoltura, e della naturale tendenza dei vecchi alla loquacità, con che risparmio l'accusa, che io dissimuli i peccati della vecchiezza onde farvela assaporare siccome scevra di mende e perfetta.
Gli ultimi anni trascorse nella vita campestre Marco Curio, il trionfatore de' Sanniti, de' Sabini e di Pirro, ed io, mentre rivolgo gli sguardi alla sua villa, la quale è vicina alla mia, non mi stanco mai di ammirare, sì la frugalità di quell'uomo, che l'austerità dei tempi passati. Sedeva egli modesto davanti al focolare, quando venuti gli ambasciadori di Sannio ad offrirgli in dono una riguardevole somma in oro, Curio la respinse dicendo: non tenersi da lui in pregio il possesso di quelle ricchezze, bensì l'impero sopra coloro che le possedevano. — Un animo di tal tempra non bastava forse a rendere contenta di per sé la propria vecchiezza?
Ma ripigliando il discorso delle cose campestri i senatori d'allora, o per meglio dire i vecchi, tenevano dimora nel contado. Lucio Quinzio Cincinnato stava conducendo l'aratro, quando un messo venne ad annunziargli essere egli innalzato alla Dittatura: e fu appunto per suo comando che Caio Servilio Aala mastro della cavalleria, tolse di vita Spurio Mevio il quale cospirava a farsi Re. Dalle loro ville, quel Marco Curio e i Senatori venivano al Senato; e da quel costume di abitare i campi ne venne poi nome di Cursori ai messi incaricati di recare ai Senatori la lettera d'invito.
Or dunque di che mai si potrebbe lamentare l'esistenza di questi vecchi che presero piacere all'agricoltura? È mia opinione che di più beata non se ne possa immaginare, non solo per il giovamento alla salute dell'uomo, ma per le distrazioni che porge, per l'abbondanza e dovizia d'ogni cosa atta al vitto nostro, non che ai riti degli Dei. Verso le quali voluttà da molti appetite perché non disoneste, io non mi dimostrai troppo severo. Grazie poi alle cure di esperto e diligente padrone, li granai, la cantina e le stalle contengono in abbondanza vino, olio, ed ogni derrata; avvi copia di maiali, capretti, agnelli e pollami.
L'orto dei legumi fornisce di camangiari sussidiari la loro cucina, e quando la stagione dei raccolti è chiusa, non mancano l'uccellazione e la caccia.
Accennerò io brevemente li prati sempre verdi, li simmetrici filari d'alberi, la leggiadra disposizione dei vigneti, e i fecondi uliveti? Nulla può paragonarsi a campo ben coltivato per la ricchezza dei frutti e per il lussureggiante aspetto; la vecchiezza medesima anziché distogliersene, se ne trova eccitata e sedotta.
Dove, meglio che in villa, il cadente vecchio può ristorarsi al vivido raggio solare, alla allegra fiamma del focolare; o nell'estiva stagione, al rezzo amico, o nel bagno di acque salubri?
Abbia pur vanto la gioventù nell'armeggiare, nel guidare destrieri, nel maneggio del giavellotto e della clava, sia pure agilissima alla corsa ed al nuoto. Fra i vari giuochi resta sempre a noi vecchi il passatempo dei dati e della trottola. Ambedue questi giuochi sapranno spassarci; ma non sono necessari alla vecchiezza; non le mancano passatempi piacevoli anche priva di essi.

XVII. (Re agricoltori dell'antico evo.) — Senofonte scrittore di tante ottime cose, delle quali io attenta lettura vi raccomando, nel suo libro appellato Economico, intorno al governo domestico, porta al cielo l'agricoltura: e siccome uomo che alla regale maestà non reputava indecorosa la pratica di essa, ivi introduce Socrate a narrare a Critobulo, di Lisandro spartano personaggio di preclaro ingegno venuto in Sardi, quel messo della lega greca, per offrire presenti a Ciro il Minore re de' Persiani, rinomato per prestanti virtù e glorioso impero. Questo monarca che adoperava con l'ambasciadore modi urbani e cortesi nei pubblici affari, un giorno prese a mostrargli il proprio giardino chiuso da ben contesta siepe, dove stavano leggiadri filari di bellissimi alberi. Lodava Lisandro la superba altezza di essi con leggiadria allineati, a spazi equidistanti, il terreno perfettamente purgato e il soave olezzo de' fiori “non sì forte meravigliandosi (esclamò) di tanta precisione, che della solerzia e maestria degli autori ed esecutori di sì egregio disegno”. — “Io stesso qui tutto disposi, soggiunse Ciro, mio l'ordine, mia la distribuzione, e non pochi di tali alberi con le mani mie io stesso piantai.” Allora lo spartano mirando le agili forme del Re, la porpora e la tiara d'oro e di gemme contesta, disse: “A buon dritto, Ciro, godi fama d'uomo felice, poiché posto in così alto grado basti a raccogliere tanta virtù”.
E diletti di questa specie sono anche ai vecchi permessi, i quali nell'età che raggiunsero non vengono assolutamente distolti dall'attendere ad altre occupazioni, e specialmente all'agricoltura, che non disdice nemmanco all'età più avanzata.
È noto che Marco Valerio Corvino visse fino a cent'anni, avendo consumato quasi intero il corso di sua vita nella coltivazione dei campi. Venne egli per sei volte al consolato, con intervallo di quarantasei anni fa il primo e l'ultimo. Quel periodo di nove lustri, a cui i maggiori nostri assegnavano il principio della vecchiezza, fu per esso non interrotto seguito di magistrature; e così l'ultimo stadio di sua vita passava egli più dolce del medio, possedendo maggior autorità mentre il suo lavoro era di gran lunga minore.
Altro eminente pregio della vecchiezza è riposto nella considerazione che la circonda. Quanta mai non fu quella di Lucio Cecilio Metello, e d'Attilio Celatino, per unico elogio del quale basterebbe l'iscrizione posta al suo nome sopra una tavola di bronzo: “te saluta primo cittadino di Roma il popolo romano a gran maggioranza di voti”.
È noto l'epitaffio, che fu scolpito sulla sua tomba: veniva tenuto in conto d'uomo preclaro e fu vera giustizia resa a lui che aveva guadagnata unanime in suo favore la fama. Quanta eminenza in quel Publio Crasso negli ultimi tempi insignito del sommo Sacerdozio; in Marco Lepido a lui succeduto nella stessa dignità! Che non direi io di Paulo, dell'Africano e di Massimo, de' quali altre fiate vi tenni parola! L'autorità di essi non era riposta unicamente nel merito delle loro dottrine, ma rivelavasi dall'ossequio con cui ogni loro cenno veniva accolto.
In somma laddove è tenuta in onore la vecchiezza frutta considerazione di gran lunga maggiore che tutti assieme non valgano i piaceri della gioventù.

XVIII. (Catone nelle sue lodi ai vecchi intende di quelli preclari per le loro azioni.) — Ma in ogni discorso da me intorno alla vecchiezza tenuto, non sia per isfuggirvi di mente che io di quella soltanto intendo parlare con lode, la quale discende da una gioventù bene allevata. Ond'è che poi trovai concorde con me la pubblica opinione, quando reputai meritevole di commiserazione quella vecchiezza che può sostenersi in credito unicamente mercé la millanteria delle parole. Non bastano le rughe della fronte, non i bianchi capelli per rendere di repente vulnerabile un vecchio; soltanto nell'ultimo periodo l'età raccoglie i tardi frutti d'una vita costantemente onesta.
Aggiungi certi riguardi che sebbene di lieve conto e volgari, sono accolti siccome testimonianze onorevoli in società: valga il dire essere salutato dai più; desiderato dai conoscenti; vedersi concessa la destra sulla via e ceduto il posto nei teatri; l'alzarsi altrui al proprio cospetto; la numerosa clientela da cui il vecchio è accompagnato al foro, e ricondotto a casa.
Si narra che lo spartano Lisandro da me dianzi accennato, solesse dire, essere Sparta onorevole asilo dei vecchi; e in nessun luogo tributarsi maggior ossequio e tenersi in maggior pregio l'età. A tal proposito, mi sovviene di talun uomo attempato una volta intervenuto ai giuochi dell'anfiteatro in Atene, senza che alcuno de' suoi concittadini si movesse a fargli posto. Senonché arrivato ai distinti sedili riservati agli ambasciatori spartani, questi rispettosi si alzarono, e lo fecero sedere in mezzo a loro. In quel momento l'intera assemblea, avendo fatto plauso a tale atto, soggiunse uno di essi “conoscere gli Ateniesi ciò che fosse generoso a farsi, ma non saperlo fare”.
Vanta il Senato di Roma non poche pregevoli istituzioni, ma fra le altre merita particolare menzione quella che il seniore abbia la priorità della parola. Ond'è che gli stessi Auguri, quando sono vecchi non solo precedono coloro che tengono il posto d'onore, ma altresì quelli insigniti di carica eminente. É dunque malinteso il paragone fra i piaceri sensuali e le compiacenze derivanti dalla conseguita considerazione. — Coloro che seppero maggiore e splendido profitto ritrarne, sembrammi avere essi recitata abilmente la loro parte nella commedia dell'età, e non a guisa di attori inesperti, giunto l'atto ultimo, essersi con mal garbo ritirati dalla scena.
Ma vecchi non mancano queruli, stizzosi, sofistici, e se osserviamo minutamente, anche avari; il quale vizio più nei costumi, che nella vecchiezza è riposto.
Le sofisticherie e i difetti testé accennati, se non ponno appieno giustificarsi, trovano tuttavia qualche scusa. La vecchiezza di sovente sospetta di essere schernita e teme gl'inganni; poiché all'uomo quanto più debole è, tornano più sensibili le offese. Nell'esercizio degli onesti costumi, e delle savie dottrine sta l'unica via di mitigarle, siccome tuttodì nella vita impariamo, o il teatro ce ne porge lezioni. Tale è la scena dei due fratelli negli Adelfi di Terenzio, dove tanto sono aspri i modi dell'uno, quanto gentile è il tratto dell'altro. E così vanno le cose. In quella guisa che non tutto il vino inacetisce, non sempre l'età sotto il cumulo degli anni, è fatta triste e noiosa. Piacemi bensì ne' vecchi la severa maestà; ma siccome ogni altra cosa, mi va a genio moderata e senza spiacevole durezza.
Dell'avarizia poi negli anni senili, non giunsi mai a indovinare lo scopo. Può essere più stolto il divisamento di accumulare la copia delle provvigioni per un viaggio dove la meta è tanto vicina?

XIX. (Noncuranza della morte. — Teorie dei materialisti. Ragionamenti sull'immortalità dell'anima.) — Resta una quarta causa che più delle altre questa misera età conturba e tormenta, voglio dire la vicinanza della morte, che certamente non può tardar molto a battere alla porta della vecchiezza.
Ben poco sarebbe da compiangere quel vecchio che passata una lunga vita, non gli bastasse l'animo di disprezzare la morte! Della quale, o non debbe tener conto, se l'anima interamente si spegne, o desiderarla se per essa, sciolta dai terreni legami, spazia nell'eternità. Certamente fuori di questo dilemma, non avvi altra via.
Perché dunque temere, se morto, o avrò finito d'essere sensibile, o ben anco posso andare alla volta della felicità?
Infatti non è forse presuntuoso quell'uomo, per quanto giovine sia, il quale nel mattino vantasi di sapere che sarà tuttora vivente la sera? Poiché nella giovanile età più frequenti sono che nella nostra i pericoli della vita. I giovinetti vengono colti più facilmente dalle malattie; le soffrono più gravi, e ne risanano con maggior difficoltà. Laonde assai pochi fra essi arrivano alla vecchiezza. E volesse pure Iddio che molti la toccassero, chè gli affari della repubblica procederebbero con regola migliore. Il senno, la ragione, la fermezza essendo consueto retaggio degli uomini attempati, se questi mancassero, cadrebbe nel disordine ogni buon governo civile.
Ma ritorno all'idea della morte imminente. — Perché far carico alla vecchiezza d'un funesto accidente, comune alla stessa adolescenza? La perdita dall'ottimo figlio mio, quella de' tuoi fratelli che avevano la prospettiva de' primi onori, è pur troppo la prova, o Scipione, che la morte non rispetta differenza d'età.
Ma la speranza di lunga vita che risplende al giovinetto, manca al vecchio. — Speranza malintesa, dicono taluni. Calcola da sconsigliato chi tiene per vero ciò che è falso, e per certo ciò che non è. — Certamente, osservo, il vecchio non può sperar nulla; trovasi però a migliori condizioni del giovinetto perché già ottenne ciò che l'altro aspetta tuttora. Questi anela di vivere la lunga età, che dall'altro fu già vissuta.
Del resto puossi ella, Dio buono! chiamar lunga l'umana vita? Mi si conceda pure la vita più durevole che mai si possa immaginare. Vivrò gli anni di Argantonio Re di Tartesso il quale, secondo la storia, regnò ottant'anni e centoventi ne visse.
Tuttavia non conviene, a mia opinione, stabilire siccome regola generale ciò che è meramente effetto del caso. Per l'uomo che arrivi a quell'estremo termine, tutto il tempo trascorso, è zero; non d'altro gli si tien conto fuorché del frutto di sue virtù, e buone azioni.
Sfuggono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non più ritorna il tempo passato e l'avvenire è ignoto. Ciascuno ha dovere di essere pago della durata della propria vita. Nella stessa guisa che poco importa se l'attore rimane sulla scena fino al termine della commedia, bastando per fargli plauso che reciti bene quando si mostra agli spettatori; così pure il saggio non ha bisogno di vivere fino all'ultimo termine dell'età affinché ottengano approvazione le proprie azioni. Per breve che sia la vita è sempre lunga abbastanza per chi sa vivere bene e onestamente. E perché arriva ad un'età avanzata, l'uomo non ha diritto di lagnarsene più dell'agricoltore, il quale lamenti perché dopo la florida primavera e la state, succedono l'autunno e il rigido verno. La prima è immagine della gioventù e i venturi frutti prepara; nell'altre stagioni poi si colgono e vengono assaporati. Il prezioso frutto della vecchiezza è dunque riposto, soffrite che io lo ripeta, nella memoria delle frequenti e nobili imprese operate.
Dovendo, parmi, accogliersi in buona parte tutto ciò che avviene secondo l'ordine di natura, avvi mai cosa più ad essa consentanea che gli uomini d'età più remota sieno da morte colpiti, quando i giovani medesimi soccombono ripugnante per essi la stessa natura?
Laonde il morire dei giovani rassomiglia a fiamma sommersa all'improvviso nella piena dell'acque, e invece la vita manca nei vecchi, siccome fuoco, consumata l'esca, di per sé a poco a poco si estingue.
In quella guisa che è d'uopo adoperare la forza per divellere dal ramo il frutto ancora acerbo, il quale se fosse arrivato a maturanza cadrebbe da sé, così nella gioventù è violento il disgiungersi della vita, e ne' vecchi avviene per maturità.
Del quale pensiero essendomi fatta piacevole abitudine, quanto più m'innoltro verso il limite della terrena carriera, mi sembra quasi di ravvisare la spiaggia, ed arrivare in porto tranquillo, dopo lunga e procellosa navigazione.

XX. (Dispregio della morte per forza di ragionamento.) — Tutte le età hanno un termine determinato, ma quello della vecchiezza è incerto. La sopporta onorevolmente quel vecchio, che senza lasciarsi sgomentare dal pensiero della prossima fine non dismette le funzioni del proprio stato. Da ciò dipende che la vecchiezza sia anche più intrepida e ferma della gioventù.
Tale era appunto l'opinione di Solone, quando richiesto dal tiranno Pisistrato dove mai trovasse la forza di resistergli con tanta energia, narrasi, gli rispondesse: nella vecchiezza!
Merita preferenza sopra ogni altro, il fine della vita, se arrivi in quel punto in cui sono tuttora intatte le facoltà della mente e del corpo. Allora natura da sé scompone il proprio lavoro, con facilità pari a quella con cui l'artefice disgiunse i membri della nave o della macchina già prima costrutta.
Le saldature fatte di fresco si sconnettono a stento; se logorate dal tempo, a scomporle basta lieve scossa. Laonde a questo fugace avanzo di vita, né debbono i vecchi afferrarsi troppo tenacemente, né abbandonarlo da spensierati; e pensò con giudizio Pitagora, facendo divieto all'uomo di disertare dalla guardia della vita senza comando del generale, cioè di Dio. Mostravasi filosofo, siccome era infatti, Solone dicendo che alla sua tomba non voleva mancasse né dolore, né il pianto degli amici. Tante care memorie studiavasi quel saggio di lasciare di sé!
Non credo che meglio la pensi Ennio con i seguenti versi:

La vana pompa di singulti e pianto
Risparmiate, miei cari, al cener mio

considerando essere superfluo il rimpianto a que' nomi che passano all'immortalità.
Il senso della morte, se avvenne alcuno, dura un istante tanto più nei vecchi. Morti che siamo una volta, ogni sensibilità è spenta: o se nol fosse, abbiamo di che esserne lieti. I giovani debbono meditarvi di buon'ora per avvezzarsi a non darsi pensiero della morte, perché chi non impara ad addomesticarsi con questo pensiero, non può passare tranquillamente i giorni.
Certa è la morte, incerto se verrà a sorprenderci anche in questo medesimo giorno. L'uomo che trema ad ogni istante di vedersene colto, può egli mai conservare l'animo imperturbato? Né è d'uopo di molte parole a dimostrarlo.
Basti di rammentare quel Giunio Bruto che morì sul campo per la libertà della patria; i due Deci che si scagliavano di carriera contro le spade nemiche; Attilio Regolo che andò incontro al supplizio, anziché tradire la data fede; i Scipioni, che ambedue chiusero il varco ai Cartaginesi col proprio cadavere; l'avo tuo Lucio Paulo, che lavò col sangue la macchia del temerario collega nella vergognosa rotta di Canne; Marco Marcello, alle cui spoglie mortali lo stesso ferocissimo nemico non rifiutò gli onori della sepoltura. Che più? Se le stesse nostre legioni (come dettai nel libro delle Origini) con lieto e intrepido animo coprirono quei posti di combattimento da cui sapevano perduta ogni speranza di ritorno? E questa morte adunque, la quale da giovinetti e da uomini ignoranti e rozzi non è temuta, dovrà sgomentare l'animo del vecchio assennato?
Fu sempre in me ferma l'opinione, che dalla sazietà d'ogni cosa si arrivi alla sazietà della vita. Vediamo i fanciulli: amano certi semplici giuochi; se ne curano essi quando fatti giovinetti? E i passatempi di costoro non vengono forse a noia nell'età virile? Alla sua volta questa si compiace di tali esercizi da cui distogliesi al vecchiezza. Né a questa estrema età mancano pure godimenti che le si attagliano. Ma nello stesso modo con qui vengono meno le sensazioni gustate nei precedenti stadi, spengonsi quelle della vecchiezza. Scema il diletto con l'uso: e la sazietà della vita ferma il punto immutabile della morte.

XXI. (Opinione di alcuni sommi pagani sull'immortalità dell'anima.) — Non troverei fuori di luogo che da voi venissi dimandato cosa ne pensi della morte, io, la quale avendo così vicina, dovrei guardarla in viso meglio di chicchessia.
E sono per credere, Lelio e Scipione miei, che gli illustri vostri genitori vivono; ma un'altra vita, quella sola che vera si può appellare.
Finché restiamo vincolati da questi corporei legami, siamo schiavi delle passioni e cieco strumento della necessità.
È l'anima d'origine celeste, scesa dalle superne sfere ad abitare la materia, asilo poco degno dell'indole sua eterna e sublime. Senza dubbio quell'incommensurabile soffio dagli Dei immortali veniva inspirato negli umani petti a guardia del mondo, affinché l'uomo, l'ordine dei celesti corpi contemplando, lo imitasse con pari costanza ed armonia nella vita. Né questa opinione s'ingenerò in me mercé la sola forza della discussione e la guida della ragione, ma altresì dietro l'autorità e la mente superiore di filosofi eminenti.
É fama che Pitagora e i suoi proseliti di recente stabiliti in Italia (dal che a quella scuola ne venne il nome di italiana) non dubitassero menomamente che l'anima fosse un'emanazione della Divinità. Ed all'appoggio di tale loro dottrina adducevano i ragionamenti che sull'immortalità dell'anima, aveva tenuto Socrate nell'ultime ore della vita, quel Socrate che dall'Oracolo delfico era stato giudicato sapientissimo.
Ma che vale il dire? Sono convinto e in me medesimo sento che un ente dove si raccoglie tanta prontezza di concetto, tanta reminescenza del passato, tanto discernimento del futuro, tante arti, tanta scienza, tanti ritrovamenti, un ente ricco di sì grandi prerogative, non può essere cosa mortale.
L'anima agitandosi incessantemente, senza che il moto abbia principio poiché questo moto è inerente all'anima stessa, per identica ragione neppure debbe aver fine, perché non è possibile che l'anima si spogli della propria natura. Ed essendo questa semplice né commista d'alcun ché eterogeneo e dissimile, perciò appunto l'anima è indivisibile. Se dunque non può essere divisa, neppure può cessare di essere ciò che è e morire.
L'argomento capitale che nell'uomo la scienza preceda la nascita, fondato sulla maravigliosa facilità con cui i fanciulli imparano le cose più ardue e concepiscono rapidamente svariatissime nozioni, conduce a supporre che non sieno nuove le impressioni che ricevono, ma semplicemente in loro si venga rinfrescando e riordinando la memoria di esse. — Tali sono li argomenti di Platone.

XXII. (Argomenti degli antichi intorno all'immortalità dell'anima.) — Senofonte così introduce a parlare Ciro il maggiore negli ultimi momenti del viver suo:
“Non vogliate pensare, o figli miei dilettissimi, che nel lasciare questo mondo, io cessi di essere in mezzo a voi e rientri nel nulla. Anche nel corso della mia vita non fu mai da voi veduta l'anima mia, tuttoché quanto fu da me operato fosse per voi argomento di credere che essa abitasse questo corpo. Persuadetevi della di lei esistenza anche se vi è invisibile.
“Per verità sarebbero inutili gli onori resi alle mute ceneri dei trapassati, se alla nostra pietà non venissero chiesti dal voto delle anime di essi, cui torna dolce di vedere conservata la propria memoria.
“Non crederò mai che l'esistenza dell'anima sia vincolata al corpo, e che spengasi nell'uscirne, e molto meno che inerte rimanga nel disgiungersi dall'inerte materia. Bensì che sciolta una volta dalla sostanza corporea, l'anima ritorni alla limpidezza e semplicità primitiva. In allora soltanto scintillerà il lampo della suprema intelligenza.
“E siccome in morte la natura dell'uomo cade in dissoluzione, ed ogni di lei elemento vediamo ritornare alla sua origine, ed ogni cosa ridursi ai principi da cui derivò: l'anima sola sì nell'atto di vestire che d'abbandonare la fragile spoglia terrena, sfugge ai nostri sensi.
“Osservate la morte; nulla più del sonno le rassomiglia. E tuttavia dormendo l'anima palesa la propria divina essenza, a tale punto che nella libertà dei sogni talora udiamo predire l'avvenire. Da ciò è permesso di immaginare cosa sia per divenire una essenza così sottile disciolta da ogni terreno legame. Se dunque l'anima è aspettata da tanto destino, venerate la mia quale partecipe della divinità. Se poi perisse con il corpo, voi però devoti agli Dei, che presiedono a così mirabile prodigio, non cessate di serbarmi pia ed onorata memoria.”

XXIII. (Profondo convincimento di Catone nell'aspettare una vita migliore.) — Così parlava Ciro vicino a morte. Ma ritornando al nostro discorso, nessuno potrà farmi persuaso, o Scipione, che il padre tuo Paulo, e i tuoi due avi Paulo ed Africano, o il padre dell'Africano o suo zio, non che altri molti personaggi chiarissimi, sieno venuti a capo di tante imprese meritevoli della memoria dei secoli venturi, se non stimolati dalla fiducia di appartenere per mezzo dell'anima alla posterità.
O pensi tu forse (per dire qualche cosa in mia lode, all'uso de' vecchi) che mi sarei addossate tante fatiche e di notte e di giorno, e in città ed al campo, se avessi creduto che la gloria mia dovesse passare assieme alla vita?
Non era egli assai miglior partito, senza disagi e opposizione, questa brevissima età trascorrere nella tranquilla pace d'un ozio beato?
Ma, ignoro in qual modo, l'anima sublimandosi, miri sempre alla posterità: quasi che discostandosi dalla terrena vita fosse per arrivare all'immortalità, la quale se non fosse essenza dell'anima, non sarebbero massimamente gli sforzi dell'uomo al conseguimento d'immortale gloria rivolti.
E perché credete voi che i sapienti incontrino la morte con pacata anima, mentre viene ricevuta con ribrezzo dagli idioti? Perché i primi vedendo di più e di lontano, sentono di approssimarsi ad un più lieto soggiorno, e gli altri all'incontro, ottusi come sono, nulla sanno prevedere.
E per verità me accende vivissimo desiderio di trovarmi in compagnia dei vostri maggiori, in vita tanto da me rispettati ed amati; e non solo con i miei coetanei, ma altresì con quei savi, delle cui azioni io medesimo ho udito, e dissi e scrissi ne' miei diari. Lieto dunque vado inoltrandomi alla volta dell'altra vita, né soffrirei certamente per parte di chicchessia un tentativo di ritardarmene il passaggio, siccome avveniva di Pelia.
Sono preparato a ricusare la mano d'un Dio ove fosse meco tanto liberale di farmi retrocedere all'infanzia: perché non ama ritornare alle riprese chi, già percorso lo stadio, ha quasi toccato il pallio.
Parliamo schiettamente: l'uomo nella sua vita non ha piaceri disgiunti da incomodi; e seppure ne ha, o presto se ne sazia, o presto ne trova il fine. Io però di essa non mi lagno siccome ciò fanno molti ed anche dotti; e non voglio pentirmi d'avere vissuto, poiché vissi in sì fatta guisa da non credermi inutilmente nato: e parto da queste mortali spoglie come da asilo ospitale, prestatomi dalla natura nel mio pellegrinaggio, e non per stabile soggiorno.
Oh felicissimo giorno quando entrerò in quel consesso di spiriti divini e partirò da questa umana moltitudine e da questo mondo corrotto! Non solamente mi recherò incontro a quei sommi che dianzi vi accennai, ma al mio figliuolo Catone, incomparabile per ingegno e per affetto. Io stesso ne raccolsi le preziose ceneri quando a lui incumbeva di prestarmi quest'estremo uffizio! Ma quell'animo gentile di certo non si allontanò da me, né ha cessato d'amarmi, e salì in quella dimora dove aspetta la mia venuta. E se è sembrato a voi che venisse da me sopportata con fermezza la mia sciagura, fu perché trassi conforto dal pensiero di doverlo raggiungere in breve.
Per queste ragioni tutte che meco, o Lelio, o Scipione, avete passato a rassegna, non è grave la vecchiezza, bensì lieve e gioconda.
Se per credere che l'anima degli uomini sia immortale, io m'inganno, ciò faccio di piena mia volontà, né finché vivo mi distoglierò da un'illusione che tanto mi piace. Se poi con la morte, giusta l'opinione di superficiali filosofi, si spegnerà ogni mio senso, allora non mi avverrà certamente di udire le loro derisioni, e quando pure giudicassero rettamente coloro che non prestano fede all'immortalità dell'anima, non avvi di che rammaricarsi che l'uomo finisca a tempo opportuno. Come avviene d'ogni terrena cosa, l'umana vita trova il suo compimento, che appunto nella vecchiezza è riposto. Quest'ultimo atto (così avviene anche nella commedia) non debbe recitarsi con stanchezza, e meno ancora lasciarne scorgere la sazietà.

Io queste cose vi dissi sulla vecchiezza, la quale voi pure per la Dio grazia raggiungerete, affinché, dalla stessa vostra esperienza ammaestrati, questi miei precetti possiate utilmente praticare.
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